La monte ed il monte: nomi e storie delle montagne del Comelico*

Testo di Piergiorgio Cesco-Frare

Contributi linguistici ed etimologici di Giovan Battista Pellegrini

Avvertenze per la lettura dei termini dialettali:

dz indica la 'z' sonora come nell'italiano 'zero'

ë indica l'alterazione palatina come in pën 'pane'

ö indica l'alterazione velare come in cöre 'cuore'

ò indica la 's' sonora come nell'italiano 'rosa'

s indica la 's' sorda come nell'italiano 'sasso'

s'c indica la pronuncia divisa di 's' sorda e 'c' dolce

z indica l'interdentale sorda come il 'th' inglese in 'thing'

 

È cosa ben nota a coloro che si occupano di toponomastica alpina che la corretta interpretazione dei nomi delle cime dei monti non può prescindere dai nomi delle mónti, intese queste sia come alpeggi estivi (malghe) sia come segativi di alta montagna. Assai raramente infatti gli antichi popoli pastori davano un nome alle nude cime rocciose, prive per essi di interesse pratico salvo che non rappresentassero un utile punto di riferimento per la misurazione del tempo. Altrettanto noto è il fatto che i primi mappatori, nella necessità di designare sulle carte militari ciascuna vetta con un nome, usarono in moltissimi casi quello del pascolo sottostante secondo la formula "Cima di + il nome dell'alpeggio", onde il binomio "la monte-il monte" del titolo. Ma oltre che per la toponomastica, le mónti in esame rivestono grandissimo interesse anche per la storia di questo estremo lembo di Cadore, giacché nelle loro vicende antiche - documentate sin dal XII secolo - troviamo la chiave per ricostruire la protostoria del Comelico. In realtà il secondo binomio del titolo - "nomi-storie" - dice come ricerca toponomastica e ricerca storica procedano insieme, illuminandosi a vicenda. Infatti le stratificazioni toponimiche altro non sono che il prodotto degli eventi umani che hanno interessato nel corso dei secoli il nostro territorio. I nomi più antichi sono quelli che, quando ancora il Comelico era disabitato, i pastori transumanti dal Cadore centrale e dalla Carnia assegnarono alle varie monti, alle prendere 'pascoli giornalieri' e alle dude 'tratturi'. Coi primi insediamenti stabili la densità dei toponimi delle alte quote dovette sempre più aumentare, dato il crescente sfruttamento, anche ad uso di segativi, dei prati-pascoli di montagna. A tempi più recenti risalgono i pochi nomi legati ad attività industriali (miniere di ferro) e commerciali (legname). Da ultimo le serie toponomastiche moderne, frutto della cartografia ufficiale, degli eventi della Grande Guerra ed infine dell'alpinismo. Di tutto ciò in questa necessariamente succinta trattazione potremo cogliere di volta in volta solo qualche aspetto.

* * *

Passiamo anzitutto in rassegna le antiche mónti per fornire un sintetico quadro di riferimento storico-geografico e toponomastico, raffigurato nell'allegata cartina, la quale mette in rapporto i singoli alpeggi del Comelico con le regole cadorine che ne erano esclusive proprietarie prima che il territorio fosse stabilmente abitato. Dal fatto che, come si vedrà, le regole comeliane ebbero rapporti di comproprietà solo con Domegge, Arvaglo (Vigo-Oltrepiave) e Lorenzago, si desume che furono queste le regole-matrici dalle quali sciamarono i primi colonizzatori del Comelico. Più precisamente, il Comelico occidentale - tutto l'attuale Comelico superiore e parte di Danta - fu popolato da famiglie provenienti dalla vicìnia di Domegge, mentre il Comelico orientale - gli odierni comuni di S. Stefano e S. Pietro - da nuclei di persone dell'Oltrepiave. Singolare in questo contesto è la posizione di S. Nicolò, la cui regola partecipava sia dei pascoli della Val Digón e della Val Pàdola, sia di quelli della Val Visdende: non è dunque possibile stabilire in maniera univoca la provenienza dei suoi primi abitatori. La cartina inoltre ridisegna, alla luce delle notizie storiche, gli antichi confini nord-orientali del Comèlico (e quindi del Cadore), ponendo in evidenza i territori perduti ed acquistati. I primi sono quelli degli alpeggi ricordati in un atto del 1338 ove si afferma "quod montes latine confiniunt usque ad dimidietatem fluminis medie Çelle" cioè che il confine degli alpeggi delle popolazioni 'romanze' del Cadore è costituito dalla Zeglia. Nei documenti antichi questo nome è usato sia per il Gailbach, che bagna Kartitsch l'antica Cartizo, che per il Gailfluß, che scorre presso i paesi un tempo conosciuti coi nomi comeliani di Cercenà e Vìncole, ora rispettivamente Ober- e Untertilliach. Ciò è confermato da un documento del 1445, anno in cui fu arretrato alla linea di spartiacque il confine delle montes di Calascono, Londo domeglino, Londo arvaglino, Degnas, Ampleto e Antola cioè di tutti gli alpeggi posti a cavallo dell'attuale confine di stato, che erano stati oggetto di secolare aspra contesa coi vicini tedeschi. I territori acquistati sono invece le porzioni di Àntola, Caveglo e Seò is entro gli attuali confini della Val Visdende, le quali un tempo facevano parte della Carnia.

Iniziamo col coronimo stesso 'Comèlico', col nome cioè dell'intero territorio, per poi esaminare i singoli alpeggi, procedendo in senso orario da occidente verso oriente.

Comèlico (comel. Comèlgo, Comélgo, Cumélgu; a. 1186 vicineam de Comelico). È probabilmente un derivato di communicare attraverso un *comulicà, *comeligà con dissimilazione (m)m : n > m : l (cfr. REW 2090 communicare/*comminicare onde spagnolo comulgar ma portoghese comungar; ad Erto komeligé). Il significato sarebbe quello di 'luogo di comunicazione': si pensi al passo di Monte Croce, il cui stesso nome denota come esso fosse stato sin dai tempi antichi un valico importante (vedi questa voce).

Aiarnola (Naiàrnola a Calalzo, Nàrla a Padola, Aiàrn(o)la nel resto del Comelico; a. 1314 Ayarola; a.1330 in Zovo in Aiarnolla). Questa mónte, tuttora di proprietà di Calalzo, è l'unico alpeggio in Comelico non posseduto da una regola locale. In un documento del 1314, che concerne l'accordo intervenuto tra Calalzo e Candide circa i confini della monte di Ayarola, si stabilisce che quelli di Calalzo possano "inpo' j Colesei pascolar e goder tutto il frutto che Ricavar potesero in quei pascoli custodindo puro le solite segature eccettuata la segattura di Campestrin". Secondo la leggenda (che circola, con varianti, anche in Comelico, ma che appare del tutto infondata) raccolta a Calalzo, questa regola venne in possesso della mónte di Aiàrnola ereditandola da una vecchia di Padola, detta la Macagnéta, la quale, malvista nel proprio paese, scese in Cadore promettendo la propria fortuna in cambio di un vitalizio. Trovò in Calalzo ospitalità ed assistenza ed alla sua morte la Regola di Calalzo divenne proprietaria di una mónte che va dal Prà de la Mónte sino a Monte Croce. L'attestazione più antica è Ayàrola e non crediamo si tratti di errore di trascrizione poiché la trafila Ayàrola > Aiàrla > Naiàr(o)la > Aiàrn(o)la > Narla è del tutto plausibile. L'ètimo è con tutta probabilità àier 'acero' (la n di Naiàrnola è 'in').

Collesei (comel. Culdé a Candide, Casamazzagno e Dosoledo, Culò ì a Padola; a. 1214 Colesellis). Dal documento del 1314 appena citato si ricava che questa mónte era riservata alla fienagione sin da quei tempi lontani. La storia antica di Collesei è comune a quella delle altre mónti di Croce, Pontigo, Caliscon e Londo Domeglino per le quali si veda più oltre. Dal punto di vista etimologico è chiara la derivazione da collis 'colle' ed è interessante notare come questo dia cu- in posizione àtona, il che chiarisce anche l'etimologia di Cutarné 'Quaternà' (vedi sotto) e di Curòdal (Còl dal ròdal cioè 'colle del rotolo' ovvero 'del gregge').

Monte Croce (comel. Cròus a Dosoledo, Crós a Casamazzagno e Candide, Crèus a Padola; a. 1214 Cruce). La morfologia del luogo rende evidente il significato di mónte inteso come pascolo e segativo e non come cima. Per altro verso, le attestazioni antiche impediscono di intepretare il termine nel senso di 'passo'. Notare l'interessante fossile crèus/cròus che sopravvive solo in questo toponimo mentre 'croce' come appellativo oggi si dice cróò i/cròudi. Quanto all'origine del nome, essa appare abbastanza chiara ove si pensi che sui passi alpini anticamente veniva di solito eretta una croce.

Vertignon (comel. Furgnógn; a. 1312 Vertignonum, mons Avertugnoni, Aurugnono de Salla). Se fosse possibile stabilire la corrispondenza tra questa mónte con quella di Autigentis o Antigeris, come taluno ha proposto, allora si tratterebbe di un acquisto fatto dalla vicinia di Candide verso il 1200. Secondo l'opinione corrente Avertugnono corrisponde all'attuale Frugnóni, pascolo posto tra il Quaternà e la cresta di confine (il Passo Silvella dell IGM). L'ètimo resta oscuro. La specificazione de Salla in una delle attestazioni antiche ci induce, con molte riserve, a pensare che Avertugnono si estendesse oltre le cime fino al Lago dla Sala, nome comeliano dell'Obstansersee (la sala 'scala' si riferisce ad un passaggio con gradini scavati nella roccia sul sentiero che scende verso Kartitsch).

Pontigo (comel. Puntì; a. 1214 Pontigo). Questo alpeggio è citato negli antichi documenti insieme con Collesèi, Croce, Lòndo Domeglino e Cialiscón (vedi quest'ultimo per le vicende storiche comuni). Contrariamente all'opinione corrente che lo identifica con lo Zovo-Pontigo di Danta, siamo propensi a situare Pontigo alle pendici sudoccidentali del Quaternà ove sopravvive il toponimo Puntì per indicare un bosco ed un pascolo (vedi anche 'Giao Pontii' [sic!] in IGM). Sostiene la nostra tesi un documento del 1221 dal quale si apprende che gli animali di Domegge per monticare in Cialiscón e Pontigo devono attraversare il ponte di Gera, avendo dunque oltrepassato il valico di Zovo. Quanto al significato di Pontigo, il Fabbiani ci dice che il cadorino pontì, comeliano puntì significa 'callaia, apertura nella siepe o nello steccato' della fedèra o della mandra o del tambro': spiegazione del tutto verosimile poiché ponte + ile indica 'passaggio'.

Ale (comel. Al; a. 1271 mons de Ale). Nel 1271 Biaquino da Camino, feudatario del Cadore, dona alla fàula di Candide il monte Ale, probabilmente già da Candide detenuto in affitto. L'antico nome sopravvive solo nell'oronimo Pèra d Al 'Pietra di Ale' (IGM 'Peradal') che è un pascolo ai piedi di un gran roccione, posto nella testata della valle del torrente Digón. Per Ale cfr. il friul. âl 'Ontanello'?.

Ombrio (comel. I Ónbar; a. 1186 de monte qui vocatur Umbrium). Nel 1186 Dituinello, gastaldo di Guecello da Camino, investe gli abitanti di Candide del monte Ombrio per cento lire veronesi. Esso corrisponde al toponimo IGM 'Bosco di Ombrio' e al comel. I Ónbar, esteso bosco con sovrastante pascolo alle pendici orientali della Spina. Forse da umbra il nome, per via dell'esposizione, ma si potrebbe anche affacciare timidamente l'ipotesi di una derivazione da *ambli voce celtica per l'Alnus viridis (cfr. Ombretta in Marmolada).

Campobon (comel. Cianpugón; a. 1191 mons de Campobono). Nel 1191 la vicìnia di Lozzo vende agli abitanti di Candide il monte Campobón, la cui estensione - come da qualcuno già ipotizzato- era probabilmente assai maggiore dell'attuale pascolo di Cianpugón e abbracciava forse tutta la parte meridionale della lunghissima costa della Spina. Cianpu in comeliano oltre che 'campo' significa anche 'prato di alta montagna riservato allo sfalcio', dunque il significato è quello di un ottima mónte da fieno, come in realtà è sempre stata sin dall'antichità Campobón. Il comel. Cianpugón sarà il prodotto di dissimilazione.

Cialiscon (comel. Cialiscón; a. 1213 monte de Calascono; a. 1214 citra et ultra Pennas de Calascono). Di questa vastissima mónte, che si estendeva dalla valle del torrente Digón a quella della Gail, rimane solo una traccia nel toponimo Cialiscón, nome di una prendèra di Pian Formaggio e del rio ad essa adiacente. Nelle vicende storiche antiche Cialiscón è accomunato a Croce, Coleselli, Pontigo e Londo Domeglino e agli alpeggi di Doana e Baión nel Cadore centrale, tutti un tempo proprietà comune delle regole di Domegge, Candide e San Nicolò, che nel 1216 ne concordano la spartizione. Quest'antica comunione di pascoli tra le due regole comeliane e quella di Domegge fa definitivamente luce sull'origine della colonizzazione del Comelico occidentale. Calascono allude di certo ad un sentiero (callis) dell'ascono cioè del 'montone', termine tipico, anche se arcaico e non più vivo (asco e ascone) dei dialetti cadorini (si incontra p. e. nel Laudo del Comun di Oltrerino - San Pietro di Comelico del 1565: "Hyrcum, uel ut uocant Asconem"). Foneticamente regolare la forma moderna Cialiscón.

Melin (comel. Mlin; a. 1214 Londo Domeglino; a. 1495 montis Melini). Dal punto di vista etimologico siamo in presenza di uno di quei casi in cui, senza l'attestazione documentaria dell'antico nome, l'intepretazione sarebbe completamente fuorviata da facili analogie. Nella fattispecie si sarebbe infatti indotti ad accostare Melìn a Mèl (BL) e quindi a Zumelle < gemellus oppure allo stesso comel. dumlin 'gemello' < gemininus. Viceversa sappiamo dalle carte antiche che Mlin viene da domeglino che è l'etnico di Domegge (vedi anche Anta domeglina = Danta): evidentemente questa mons apparteneva ab antico a quella vicinia, dalla quale in seguito si originarono le regole di Candide e San Nicolò, che divennero perciò comproprietarie dell'alpeggio. Per le considerazioni sul toponimo Londo si veda poco più avanti.

Malvola (a. 1251 Malvola) è l'attuale Zovo di Costa. Nell'anno 1374 Domegge dà a Costa l'intero monte detto Zovo di Maruola (altrove monte del fien di Mazaiola [sic!]) in cambio di 20 libre di formaggio l'anno: questa concessione chiude una lite ultracentenaria. Mentre Zovo (comeliano Dóo) viene chiaramente da jugum nel senso di 'valico di montagna' (come la vicina Forcella Zovo, che porta in Visdende, e lo Zovo di Aiàrnola sopra citato, da cui il Passo Zovo o di Sant'Antonio), per Malvola non siamo in grado di fare alcuna congettura.

Londo (comel. Lòndo; a. 1278 Londo arvaglino; a. 1312 mons Londi de Viscada). Probabilmente in origine Lòndo era il nome di una vasta proprietà comune, successivamente suddivisa tra le vicìnie di Domegge (Londo domeglino ora Melìn) e di Arvaglo (Londo arvaglino o di Viscada, ora Lòndo). Di questo unico Lòndo faceva probabilmente parte anche l'attuale Vilanàro (in faccia a Costa d'Àntola), nelle carte antiche detto appunto Londo Vilanaro. Per quanto riguarda il significato dell'oronimo, notiamo che in comel. dalònde < de longe significa 'lontano'. Se questa fosse l'origine, ma non è sicuro, la spiegazione potrebbe essere che per gli originari proprietari del Cadore centrale era sicuramente questo uno dei pascoli più lontani.

Dignas (comel. Degnàs; a. 1186 Degnasum; a. 1312 mons Degnadi). Prima del 1445, quando i montes comeliani "de ultra pennas" furono definitivamente omissi et perditi, questa mónte era estesa molto più nella valle della Gail che non verso Visdende, tanto che nel 1463 fu necessario aggiungervi due porzioni tolte da Londo e Ampleto dopo che il "mons Dignasij remansus fuerit minimus, et pauper". Nell'anno 1186 le vicìnie (regole) di Arvaglo (Vigo-Oltrepiave) e di Comelico (comprendente S. Stefano con Casada, Oltrerino e probabilmente anche San Nicolò, poiché quest'ultimo figura in seguito consorte nei pascoli di Visdende) dividono le loro montes: Arvaglo dà a Comelico Londo, Dignàs e Ampleto in cambio di Razzo, Piova e Campo. Ciò prova che il Comelico inferiore fu colonizzato da gente di Oltrepiave. Il nome è di spiegazione incerta e non è da escludere del tutto un'origine antroponimica (che risulterebbe poco verosimile se si dovesse pensare ad es. a Ignius + asiu o aceu o simile). Si conosce un Tegnàs nel Basso Agordino ove la derivazione da tinea (più suffisso -aceu) nel sign. di 'terreno arido' può essere probabile.

Ampleto (a. 1186 Ampletum; a. 1278 Appleto; a. 1351 Apleto; sec. XVIII Doppietto). A quanto ci consta l'oronimo non ha lasciato alcuna traccia di sé nella toponomastica attuale anche se di certo fu in uso, nella forma di Doppietto, almeno sino all'inizio del secolo scorso. In antico sicuramente comprendeva l'alpeggio di Manzón da Salvadés a Val Mezzana, mentre più incerti sono i sui confini originari oltre questi due estremi, poiché se ad occidente esso fu privato di una porzione a favore di Dignàs (vedi questo), ad oriente è incerta l'appartenenza di Col Chiastellin a ragione della disputa che riferiamo qui sotto (vedi Àntola). Quanto all'ètimo, il suffisso -etum indica un fitonimo, facilmente da *ambli > ampli (cfr. Ombrio) da cui il comel. anpiadés che è il nome dell'ontano di monte.

Antola (comel. Àntola; a. 1351 Antula; a. 1362 Antola Cargnela). La monte d'Àntola comprendeva, nell'attuale Val Visdende, tutta la destra orografica della Val d'Àntola sino al Rio Lavazzèi e forse anche la Val Carnia, e la sinistra orografica della Val Mezzana. Si estendeva poi verso nord, abbracciando i corrispondenti territori oltre lo spartiacque sino al fiume Gail. Tra il 1351 ed il 1362 il Comun d'Oltrarino (S.Pietro di Cadore) acquista da gente della Carnia il detto monte "iacentem in Carnea". Nel 1725 ha inizio una lunga controversia per i pascoli tra Val Mezzana e Van Comun, i quali erano pertinenza della monte di Apleto del Centenaro di Comelico Inferiore. Oltrarino, quale proprietario di Àntola, rivendica tutto questo territorio in base ad un documento del 1408, "miracolosamente" ritrovato nel 1714, e riesce ad averla vinta in prima istanza dinnanzi ai giudici cadorini, cui spettava in via esclusiva la competentza per cause tra comunità locali. Ma il Centenaro ricorre alla suprema magistratura veneziana in quanto si tratta di "restringere e dilatare li Confini dell'una, e l'altra d'esse Prouincie", vale a dire tra Cadore e Carnia. Queste poche notizie bastano a far capire come i confini storici del Cadore verso oriente fossero diversi dagli attuali (vedi anche scheda Sésis). Ciò prova che i confini storici del Cadore verso oriente erano diversi dagli attuali. Venendo al significato del toponimo osserviamo che àntol in comel. significa 'piccolo appezzamento di prato, settore di segativo di alta montagna che si riesce a falciare in una giornata'. È questo un importante termine geografico che dovrebbe spiegare una serie di toponimi alpini e bellunesi, compresi Danta (Comelico) e Àntole (BL). Non escludiamo che l'origine sia il latino anta 'pilastro' 'stipite della porta', che ha assunto vari significati tra i quali, nella forma derivata (dimin.) antula, quello di 'asse' 'tavola' (sia pure con usi speciali). Penseremmo pertanto che la trafila semantica sia simile a quella di tabula/tabella che in molti dialetti è passata ad indicare un tratto di campagna (frl. taviele, ecc.) 'un appezzamento di terreno'.

Chivion (comel. Ciovión; a. 1351 Caueglo; a. 1623 Chiauiglion, Chiuion e Chiuions). Il pascolo di Chivión era anticamente definito "Mons Patriarchae Aquileiensis" e, al pari di Antola e Sesis, sino al diciottesimo secolo era territorio di Carnia. Fu acquistato, tra il 1621 ed il 1623 da parte delle facoltose famiglie dei Poli, Gera, Fabris, de Mario e Campelli da proprietari di Carnia. L'etimo viene da capitulum che dà regolarmente origine a caveglo col significato di 'punta' 'spuntone' 'capecchio' alla lettera 'piccolo capo'. Civión, ciovión ecc. è un accrescitivo di caveglo: caveión, cavión. Si tratta di capire se il concetto di 'capecchio' sia da ricondurre ad una caratteristica morfologica del luogo (potrebbe essere ad es. il colle stesso che sta di fronte l'attuale casera) oppure si riferisca al ciovión che in comeliano è il nome del "Nardus stricta L.", erba di alta montagna che forma dei cespi rotondeggianti.

Sesis (comel. Söde; a. 1505 Montem de Sesis). Pierio Valeriano, 1550: "Mons autem de cujus radicibus erumpit [il Piave], Scese nomen habet": le sorgenti del Piave richiamarono l'attenzione degli studiosi sino dal secolo XVI e già da allora vediamo comparire nelle carte geografiche un m. Sezis, o Secis o de Sethio o Cese o Scese, il quale, nelle mappe, occupa il posto del Peralba. In un documento del 1505 si parla della "Confinazione fra le due montagne di Londo in Comelico e di Sesis in Sappada". Ora, essendo come è noto Sappada ai quei tempi in territorio di Carnia, si deduce che anche Sesis, oltre ad Antola, non faceva parte del Cadore. La consonante interna è sonora, come dimostra la versione comeliana che ha 'd' regolarmente da 'ò ', per cui si può pensare ad un corrispondente del friulano ò is, siò is 'siepi' dal lat. cisa. Altro concorrente, assai incerto, potrebbe essere il lat. setius che ha il senso di 'ultimo' e di 'ristretto', it. sezzo, ma non vi mancano varie difficoltà.

Divola (comel. Dìgola; a. 1213 Lidiulam; a. 1347 (Po)lidivulam; a. 1403 Diegola). Antico alpeggio della vicìnia di Lorenzago, fu oggetto di una plurisecolare controversia con quelli di Sappada, poiché esso si estendeva originariamente in versante sappadino sino al Piave. Il confine del Cadore ad oriente era dunque costituito dal Rio Bianco ovvero Rio Storto (il Krummbach dei Sappadini). La forma archivistica antica "Lidivola" e l'interpretazione di "Polidivulam" come un composto, molto comune, con post > po 'dopo' 'oltre' (nei documenti antichi, quando si parla di Polidivola, ci si riferisce sempre al basso versante sappadino), fa ritenere non aleatorio considerare l'oronimo Digola una forma ridotta di Lidigola ove Li- è stato poi deglutinato come fosse un articolo. Si può dunque pensare che si tratti di un composto di lida (nella zona è ora più comune léda) 'melma' 'fango' con una formazione aggettivale lid-iv-ulus cioè 'melmosa'. In effetti il terreno del passo della Dìgola è di natura argillosa: questo sito ha dato probabilmente origine al toponimo.

Tamarile e Silvaplana (comel. Tamarì; a. 1213 pro montibus de Tamarile et de Silvaplana; prima metà XVI secolo Tamarì, Tamborì). Citiamo queste due mónti anche se fuori dei confini attuali del Comelico, poichè le loro antiche vicende offrono un'ulteriore prova dei legami tra il Comelico Inferiore e l'Oltrepiave. Difatti in un documento del 1213 viene stabilito che le vicìnie di S. Stefano e di Lorenzago debbano detenere e pascolare in comune vaste porzioni di Tamarile e Silvaplana, di cui evidentemente erano in origine comproprietarie: ciò rivela un legame di derivazione della vicìnia di S. Stefano da quella di Lorenzago. Per l'etimologia dei due oronimi cominciamo col dire che è molto interessante l'attestazione ormai antica del tipo tamarile, evidentemente un composto del noto tàmer (tamber, tambre ecc.) 'recinto di alta montagna ove il bestiame minuto (specie pecore) serena all'aperto', con il suffisso -ile che si riferisce spesso agli stalli per animali (porcile, ovile, caprile, equile, bovile ecc.). La voce preromana, che è assai diffusa nell'Italia nordorientale ed è attestata nelle aree confinanti tedesche e slovene, viene dal prelatino *tamara. Quanto a Silvaplana, il significato è trasparente ('bosco piano') e, pur non avendo il toponimo lasciato traccia di sé in loco (l'attuale Pian de Sire), si ricollega alla Selvapiana di Comelico Superiore.

* * *

Veniamo ora ai moderni oronimi, ai nomi cioè delle cime dei monti e, in senso più lato, dei prati-pascoli di alta quota. Ci limiteremo ai principali e più familiari agli alpinisti, senza tuttavia rinunciare a qualche riferimento a microtoponimi di particolare interesse linguistico e/o storico. Cominciamo dal ben noto gruppo del Popèra la cui propaggine più meridionale è il Monte Aiàrnola, denominazione moderna che ricalca perfettamente, anche se con diverso significato, quello dell'antica mónte di cui abbiamo parlato sopra. La imponente catena dolomitica continua verso nord-ovest con la Cròda da Campo, la quale dovrà forse il suo nome al sottostante Cianpu d San Piéru, pascolo della mónte suddetta. Prosegue con la Cròda di Tacco (tacco pare essere più un oronimo riferito al versante auronzano, difatti esso si riscontra anche nelle Marmarole), con la Cima Pàdola, di chiaro significato, e con la Cima Bagni che prende evidentemente il nome dal sottostante omonimo colle. Per quest'ultimo sembrerebbe scontato l'accostamento coi Bagni di Valgrande, stabilimento idrotermale costruito alla fine del secolo scorso, sennonché l'oronimo pare avere una più antica origine pastorale (Còl dei Bai lo chiamavano i pastori di Calalzo). Arriviamo finalmente nel grandioso circo glaciale che dà nome a tutto il gruppo: il Vallón Popèra (comel. Poipèra e Npoipèra; a. 1436 il monte di popera). Questo luogo attesta in maniera esemplare un certo tipo di evoluzione toponomastica accennata nell'introduzione: magrissimo pascolo di pecore, era un tempo individuato da un solo nome, Npoipèra appunto, mentre ora, in seguito alla guerra e all'alpinismo, non vi è cima o forcella che non abbia la sua denominazione. Aggiungiamo che in Comelico si contano quattro località con questo nome: oltre a quello in parola, vi è un Poipèra in Aiarédo alle falde dei Longerin, uno sotto i campanili di Rinaldo in versante di Visdende, ed infine l'assai noto Pupèra Valgrande nel gruppo dei Brentoni (pùpera non è che una variante fonetica di poipèra). Il toponimo, che pare avere una diffusione limitata all'area comeliana, viene da pèra < petra nel senso di 'montagna' 'cima rocciosa'. Si noti che pèra e sasso (da saxum > comel. sasu, p.e. il Sasso di Selvapiana) sostituirono monte nel senso di 'montagna', dacché quest'ultimo termine assunse il senso di 'alpeggio'. In pó-i vi è il riflesso dell'antico -s di pos(t). In definitiva poipèra significa 'nascosto, riparato dietro il monte' il che si attaglia perfettamente alla morfologia di tutte e quattro le località suddette. In particolare per il Popèra in esame il toponimo in origine riguardava solo la parte nord-orientale del vallone, posta npói 'dietro' la pèra di quello che oggi le carte indicano come il Crestón di Popèra. La più celebre guglia del Vallon Popera è senza dubbio La Sentinella (comel. L Pupu d San Dvani), torre rocciosa che sovrasta sulla sinistra orografica il passo che da essa prende il nome. L'origine del toponimo, nella sua versione italiana, non può essere legata alla Grande Guerra poiché esso si riscontra già nella carta dell'IGM dell'anno 1889. Più interessante è la versione comeliana che, tradotta, significa 'Il Pupo (nel senso di 'torrione') di S. Giovanni' ed è dovuta al fatto che il sole vi tramonta dietro verso il 24 di giugno, festa di San Giovanni Battista e giorno tradizionale della monticazione. Abbiamo citato sopra il toponimo Selvapiana ed aggiungiamo qui che il nome locale dei pastori è Sòura la Piéna, ove piéna dovrebbe essere un arcaismo per 'piana' (cfr. biéncia 'bianca').

Lasciato alle spalle il gruppo del Popera, volgendoci verso oriente vediamo stagliarsi contro il cielo la sagoma quasi perfetamente piramidale del Col Quaternà (Cutarnà a Dosoledo, Cutarné a Casamazzagno e Candide; a. 1213 versus Collem Trunadum, a. 1271 Coltrunà). Il toponimo ufficiale contiene una ripetizione (tautologia) in quanto in 'Quaternà' è già insito il termine 'colle' come mostrano le attestazioni antiche. In trunadus è da vedere l'uso metaforico di 'trono' inteso come elevazione oppure il latino medievale toro, toronus 'collis cacuminatus et rotundus'. A nord del Quaternà la Cima Frugnoni la quale prende il nome dal pascolo dei Furgnógn o Frugnógn che comprende tutto il Passo Silvella: Silvella, comel. Sarvéla < silva - come Sèrva di Belluno e come il Cervino > mons silvinus - è il nome che designa i pascoli di tutta l'alta valle del Digón. Subito ad est di questa la Cima Vanscuro, toponimo ufficiale che si rifà al sottostante Van Scuro, alto circo di origine glaciale strettamente incastonato sulla cresta displuviale nella testata della Val Digón. Il termine geografico van, largamente diffuso in provincia di Belluno, significa propriamente 'capistèo, vaglio per mondare i cereali mediante ventilazione' ed è usato come metafora appunto per 'circo, catino roccioso o erboso'. Esso deriva dal latino vannus (femminile!) 'vaglio' che dà anche vallus da *vannulus da cui val: ciò spiega come nei dialetti friulani si usi sia van che val con lo stesso significato. In Comelico traccia di tale equivalenza sopravvive solo nella toponomastica, ove van/val si alternano come in Van/Val comun (vedi più sotto Vancomun), oppure in Valdidiè (pascolo a nord-est della casera di Silvella) citato in un documento del 1213 come Vanus de Dugario (il dugarius era il pastore delle pecore o capre da latte).

Proseguendo verso levante incontriamo due cime gemelle, dall'I.G.M. ufficialmente denominate Monte Cavallatto e Monte Cavallino. Come di regola, Monte Cavallino è una creazione dei topografi, i quali hanno attinto il nome dal pascolo sottostante: la prandèra dal Ciavalìn. A sua volta questo lo dovrà al contiguo valico che sta 'a cavallo' della cresta spartiacque. Parimenti riteniamo che Cavallatto (comel. Ciavalàtu che, come appellativo, è peggiorativo di ciaval 'cavallo') stesse in origine ad indicare quell'impervio intaglio di cresta che separa le due cime. Su un masso di marmo sotto la parete sud della cima principale è scolpita in bassorilievo la figura di un cavallino rampante, con tutta probabilità opera dello scultore Pietro Andreis che negli anni 1794-1796 eseguì l'altar maggiore della chiesa pievanale di Candide. È da pensare che egli abbia voluto con questa piccola scultura ispirata al nome del luogo, saggiare la qualità del materiale, che poi in effetti usò per l'opera. Le due cime sono complessivamente indicate come Croda di Ravis nella cartografia austriaca dei primi anni del secolo scorso: ravìs sta coi numerosi toponimi cadorini (cfr. per il Comelico La Ravìs tra I Pradöte e Viséda) derivanti da *roviceus 'terreno scosceso', appellativo che ha origine dal prelatino *rava 'dirupo franoso' ed è, tra l'altro, alla base anche di Ravenna. Se, con breve digressione in territorio austriaco, varchiamo il Ciavalìn, incontriamo il pascolo di Filmoor. Questo interessante oronimo altro non sarebbe che l'adattamento tedesco di Vallis Amara, antico possedimento oltramontano di Candide (a. 1214 ultra Pennas de Calascono et nominatim in Valle Amara: vedi più avanti Cialiscón). Foneticamente è infatti plausibile la sequenza vallis > vil > fil (come p. e. in Villgraten < Valle grata) e amara > moor. Notiamo che amarus può significare anche 'giallo' (cfr. spagn, amarillo) e si può pensare che l'attributo faccia riferimento al colore di una fascia di rocce affioranti in loco.

La lunga e caratteristica cresta rocciosa che si diparte dalla forcella del Cavallino e, in direzione sud-est, si collega con Cima Vallona, ha il suo punto sommitale nelle carte indicato come La Pitturina. In realtà La Peturìna per i pastori locali indica solamente il pascolo posto alla base del lungo costone che scende dalla cresta displuviale sopra la casèra di Pian Formaggio ed è chiaramente una metafora ispirata al vestiario antico: in comeliano la piturina o petorina è il 'pettino' cioè la parte dell'indumento che ricopre il petto, e in definitiva significa 'parte anteriore'.

Tra le cime che sovrastano Melìn la tavoletta dell'IGM annovera Cima Valona e Col dell'Ai. Valóna (comel. nzìma Valóna), probabile accrescitivo di val nel significato di 'valle' o, più facilmente, di 'capistèo' (vedi sopra quanto detto a proposito di van), indica la parte superiore del grande circo a a nord della casèra di Melìn, ma non l'elevazione della cresta di confine sovrastante che i pastori locali designano complessivamente col nome Còl dl Ài 'Colle dell'Aglio' (da accostare al più noto Coldài in Civetta). Interessante notare che questa cima nella cartografia ottocentesca è indicata come Croda di Man Dritta dalla sottostante Val Man Dritta: ciò conferma l'interpretazione popolare che abbiamo raccolto sul significato dell'oronimo Le Mandrète (presente anche in Collesei), che suona ai locali man drète 'mani diritte', anziché quale diminutivo di mandra come ci si aspetterebbe: la metafora delle 'mani giunte' rappresenterebbe la ripidezza dei luoghi costituiti da erte pale erbose. La Cima Palombìno e il pascolo del Palonbìn trovano la loro giusta descrizione nella tavoletta dell'IGM. Possiamo aggiungere che, nell'autentica toponomastica locale, la Cima Palombino, vista da Melin, è detta I Mure (con riferimento ai ripidissimi fianchi del monte simili a muraglie), mentre in versante di Visdende essa è identificata come la Cròda d Degnàs o La Cròda d Palonbìn. Il Palonbìn invece è il colle prevalente erboso con qualche roccetta affiorante sulla sommità, posto a cavaliere tra Melìn e Dignàs, un tempo sfruttato sia come pascolo che come segativo. Nel vernacolo locale palónbo sta per 'chiazzato' 'a macchie': si dice p. e. del terreno quando in primavera è solo parzialmente ricoperto da neve oppure quando l'erba volge al giallo (cfr. il friulano palòmp 'colore del frumento prossimo a maturare'). Del resto è noto l'uso dei numerosi derivati di palumbus 'colombo' per indicare il colore 'grigio-colombo' 'grigiastro' e 'giallo scuro'.

Una costante del paesaggio del Comelico è costituita dal caratteristico gruppetto dolomitico delle Crode dei Longerìn (comel. I Longiarìns, Al Longiarìn; a. 1672 I Pascolezzi de Longiarini). Posto nel cuore dell'area comeliana, esso è quasi sempre visibile dalle montagne circostanti e, nella tradizione locale, assume nomi diversi a seconda del versante considerato. Dalla valle del Digón è detto la Zima dla Frèra: la frèra è un'antica miniera di ferro alle pendici meridionali del gruppo. La tradizione popolare narra che il materiale era portato nel paese di Gera (San Nicolò di Comelico) per essere lavorato. Oronimo collegato a questo è il Bus di Cnòpe, dal tedesco Bergknappen 'minatori', che indica una località vicina all'antica miniera. Visti da nord (Val di Lòndo) i Longiarìns presentano una breve e caratteristica cresta di guglie di roccia che i locali chiamano i Vösches 'i Vescovi', forse perché richiamano alla mente queste figure ieratiche. Verso sud questa cresta racchiude la testata della conca di Vissada (cfr. Londo de Viscada) e pare evidente il nesso tra quest'ultimo antico oronimo e l'attuale Vösches (da notare anche un personale Odorico Vischo di Costalta, attestato nel 1327: si potrebbe forse pensare a visco 'vescovo' per 'sorvegliante'). Sul versante occidentale del monte vi è la conca prativa di Aiaredo (comel. Aiarè, Naiarèi da aceretum 'bosco di aceri' comel. àiar) una delle mónti segative del Comelico: da qui, come pure da Melìn, la vetta più alta dei Longerin (cima nord) era designata coll'appellativo di La Muta nel senso 'figura tozza'. Riteniamo che il toponimo originario, il quale ha dato il nome a tutto il gruppetto montuoso, sia da ricercarsi in quei Pascolezzi de Longiarini citati in un documento del 1672, i quali sono quelle strisce di pascolo intervallate da canali franosi, poste alla testata del Rio Storto (comel. Gió Stòrto) sul versante meridionale del monte. Il toponimo infatti riflette l'antico appellativo longara (latino *longaria da longus 'striscia di terreno lunga e stretta', stessa origine del toponimo Longarone - BL). Dal gruppo verso sud si diramano le due brevi propaggini. La più orientale è il Monte Schiaron (comel. S'ciarón; a. 1327 Crodis de Clarono) che, secondo una diffusissima leggenda (si pensi solo alla S'ciara della Val Belluna), deve il suo nome a grandi anelli di ferro (s'ciarógn) infissi nelle sue rocce per legarvi le barche quando anticamente Visdende sarebbe stata un lago. S'ciara e s'ciarón derivano dal lat. clatri 'cancello' e anche 'anello'. Ad ovest di questo il Monte San Daniele (comel. San Dinél): narravano i vecchi che sulle sue balze "girava a cavallo il Santo il quale una volta, in tanta velocità, fece il salto del monte e cadde a terra su una pietra, regolarmente piana, ove l'animale impresse i quattro piedi e la testa, come ancora apparisce sulla stessa". Chiude a sud la valle di Visdende il Monte Curié (Coré, a. 15?? in Collem de Curié, a. 1801 Col di Caurier), forse 'il colle del capraio' da caprarius, da cui però il comel. ha ciaurèi.

Riprendiamo l'itinerario sulla catena carnica principale con la Cròda Nera (comel. Cròda Nëgra). L'indicazione dell'IGM deve essere rettificata, riferendola non alla cima più alta sopra la casera di Campobón (che per i pastori è uno dei tanti Zimón), bensì alla elevazione immediatamente NE di questa che segna il confine tra le due mónti di Campobón (comeliano Cian(p)bón dal significato trasparente) e di Cécido (vedi sotto). L'aspetto della roccia scurissima spiega con grande evidenza il nome. Si prosegue col Monte Cecido che ha preso il nome dal sottostante pascolo con casera. Le attestazioni antiche (a. 1565 Chiachiedo leggi Ciàcedo) e la dizione locale dell'oronimo (comel. Cécido, Céc'do) non sono sufficienti per chiarirne l'etimologia. Un vasto spiazzo pianeggiante sul ripido fianco meridionale del monte è conosciuto come Pian Marcé (così l'IGM che registra fedelmente il nome nella dizione locale, che significa 'Pian Mercato'): il toponimo è interessante sia dal punto di vista linguistico, poichè conserva il fossile marcé ormai soppiantato dal veneto marcà, sia per la tradizione e la leggenda ad esso collegato. Si narra infatti che quivi si svolgesse l'estate una sorta di mercato di bestiame tra la gente del Comelico e quelli della valle della Gail. Si favoleggia inoltre che "i nostri in una notte, scoperti i Tedeschi sulle alture del monte, inviarono all'insù un branco di capre con parecchie candele accese legate alle corna, onde gl'inimici, credendo essere gli avversarii, bersagliarono le bestie, intanto i nostri andarono loro addosso" costringendoli alla fuga. Si incontra poi la Cima Manzon: anch'essa ha ricevuto il nome dalla malga che si trova alle sue pendici e che è quella di Manzón, situata nel cuore dell'antica mónte di Ampleto. In un documento dell'anno 1719 si cita "Sbolie, siue Doppietto": subito sotto il cianpèi 'pascolo' di Manzón il toponimo pastorale Pièza dle ò bolìe 'Radura delle Ortiche' rivela il collegamento tra Doppietto e Manzón. Di quest'ultimo toponimo, in assenza di attestazioni documentarie molto antiche (lo troviamo citato nella forma attuale nel '700), dobbiamo tener conto della variante comeliana di Danta Monzón, che ci porta ad un derivato di mons, montis, + suffisso -one (*montione), col significato di accrescitivo di 'monte, alpeggio'. Passiamo oltre e troviamo la Cima Mezzana, così indicata dell'IGM dalla Val Mezzana (comel. Val M(e)dana) che da essa discende sul lato ovest e che, a sua volta, dovrà il nome alla sua posizione centrale nel complesso dei pascoli Manzón-Col Chiastellin. Sul lato orientale la Val di Carnia (così nelle più vecchie levate dellIGM, comel. Val Ciàrnia) che avalla dal punto di vista toponomastico l'antica appartenenza di Àntola (e quindi Chivión e Sésis) alla 'provincia' della Carnia (vedi sotto).

Siamo ora al cospetto dell'imponente mole del Monte Van Comun (altro Zimón dei pastori), che domina il pascolo di Val Comùn, o Bèn Comùn 'bene comune' per quelli di Campolongo. Van è la sola forma archivistica attestata (a. 1719 Van Commun) ed è la nota metafora oggettuale vannus, per cui vedasi sopra. Il secondo termine comùn sta ad indicare che vi si pascolava promiscuamente: anno 1724, "vi è un Pascolo promiscuo nominato volgarmente Van Commune, qual [...] per consuetudine inueteratissima, qual de Rodoli de Animali sij d'Oltrarino, sij d'altri due Communi chi primo arriva, primo pascola di volta in volta tutta la Staggione". La successiva Cima Àntola non ha un nome presso i locali mentre nella cartografia precedente quella dell'IGM figura anche come Cima di Val Grande confermando che la Val Grande è mal posizionata nelle carte dell'IGM. Subito ad oriente di questa vetta, in una carta dei primi dell'800 troviamo una Cima Bariuto (è la vetta di quota 2462 sovrastante la Malga Àntola) che deve il suo nome al sottostante pascolo detto I Bariùte. Questo interessante toponimo - che si riscontra anche altrove in Comelico sotto la forma di Breùto, Vanbariùtu - merita un breve commento. L'articolo 124 del Laudo di Candide dell'anno 1630 dispone a favore dei pastori di mónte che "il Commun et Consorti debbano fargli overo li suoi Briutti per la Monte per poter abitar, overo dargli breghe acciò essi Bolchi possino coprirsi, e difendersi dai cattivi tempi e dai freddi". In tutto il Cadore (compreso l'ampezzano) anticamente briutto, brite era la bàita per i pastori. Il termine breiuto è un diminutivo in -uttus di un brèia 'asse' 'tavola' di origine germanica da brikan (got.), corrispondente al ven. brega ed allude ad una piccola costruzione lignea, come *tabulatum (da tabula) che indica il 'fienile' (comel. tabié) (vi avrà influito anche il tirolese puster. brite di significato analogo, ma di altra origine).

Continuando con la toponomastica ufficiale troviamo il Monte Pietra Bianca, nome che traduce il comel. Pèra Biéncia. Il toponimo ufficiale corrisponde ad un piccolo "dente" di candido calcare cristallino che affiora dalla "gengiva" erbosa della cresta spartiacque. Individuazione apparentemente ineccepibile quella dell'IGM, ma anche in questo caso la realtà è diversa giacché con Pèra Biéncia i pastori locali indicavano non tanto la vetta - che non ha un nome suo - quanto l'intero anfiteatro costituente la testata della Valle d'Àntola. Lo spunto per il nome pare venisse da un roccione calcareo incastonato nel mezzo delle ripide pale, il quale era preso a confine tra i segativi di Presenaio e quelli di San Pietro. Più oltre vi è la Cima della Varda, denominazione inventata dall'IGM per indicare il punto sommitale del Costón d Còl dla Varda, costone detto anche La Béla Còsta (toponimo ripetitivo che si riscontra anche tra Val Mezzana e Val Carnia e nel pascolo di Dignàs). Il Col della Varda è così chiamato per essere un ottimo punto di osservazione: difatti varda, voce di origine longobarda (cfr. vardar/guardare 'osservare' 'proteggere'), significa 'luogo di osservazione o vedetta', qui nel senso di 'colle donde si sorvegliano gli armenti'. Con questo significato l'appellativo - di cui non mancano altri esempi nello stesso Comelico e in Cadore - è diffuso in tutto l'arco alpino. Anche la denominazione ufficiale di Monte Tap, riferita al breve e frastagliato tratto di cresta che segue, è una costruzione dei mappatori, che hanno usato in senso estensivo il nome comel. Tap (detto di Ciadöne per distinguerlo dal Tap del Peralba). Tap è termine geografico non solo comeliano (si pensi al famoso Tap da le Paròle in Civetta!) che indica un breve ripiano o gradino sul fianco di un monte. Nel nostro caso esso designa una piccola conca erbosa, sospesa sugli strapiombi calcarei che chiudono verso est la conca di Ciadöne (questo oronimo come pure il vicino Ciadénis verrà più probabilmente da ciadìn 'catino' che non da 'catena'). L'impervietà del luogo non impediva che esso venisse sfruttato come segativo superando difficoltà quasi alpinistiche di accesso. La cresta del Monte Tap muore sul Passo dell'Oregone (comel. Oregón, probabilmente *orica + one da orum 'margine'), che fu sino al secolo scorso una delle vie di transito del legname proveniente dalle valli austriache e diretto verso la pianura veneta. A testimonianza di questo traffico restano le tracce di una lisa 'canale artificiale per scalare il legname' ed un toponimo: il Còl dal Gòrio. È questo una specie di pulpito ai piedi della parete ovest del Peralba che serviva, secondo la tradizione locale, da posto di vedetta per regolare la calata dei tronchi. Gòrio viene da 'Gregorio' ed è soprannome di famiglia a Presenaio.

E siamo così giunti al ben noto Monte Peralba, imponente massiccio di calcare bianco cristallino, che domina sulle cime circostanti e spicca per il suo colore candido sullo sfondo scuro dei boschi e dei pascoli montani. Ci mancano sinora attestazioni antiche del nome: nella cartografia del Cinquecento-Seicento esso è sempre indicato come Sesis (come già detto a proposito di questa mónte), confondendo probabilmente la montagna con l'alpeggio; nei testi di cui disponiamo esso non è mai nominato e dobbiamo dar fede a G. Marinelli per un Peralma [sic!] nel 1500. Eppure esso deve aver attirato l'attenzione del montanaro già in tempi remoti poiché il suo nome, che deriva dal lat. petra 'pietra' e alba 'bianca', contiene un notevole arcaismo cioè albus per il più recente germanico blankus 'bianco'. La versione locale del toponimo La Paralba conserva l'originario genere femminile.

Passando al versante meridionale della Val Visdende, col bel gruppetto del Monte Rinaldo ritorniamo nel regno della dolomia. La mónte omonima (comel. Rinaldo; a. 1532 monte Rinaldo) che, secondo la ferrea regola sin qui ampiamente verificata, dà il nome alla cima, si trova sul lato sud ed rappresenta un caso di sfruttamento degli alti pascoli che ha dell'incredibile. Qui infatti si conservano le strutture di un piccolo alpeggio che in passato ospitò, su fazzoletti di prato ora cancellati dalle alluvioni o invasi dai cespugli, non solo greggi di ovini e caprini ma persino un certo numero di bovini, dimostrazione lampante dell'estremo bisogno di pascoli che assillava le nostre popolazioni sino a non molti decenni or sono. Per l'etimologia, in quel Rin- è da vedere il termine geografico rin, diffuso in tutto il Cadore orientale col significato di 'rio' 'torrente', derivante da un indo-europeo *reinos che ci porta addirittura al nome del celebre fiume Reno di Germania. Per la seconda parte del toponimo si può pensare ad un caso di alto > aldo, già conosciuto sebbene raro. Appendice del Rinaldo è il Monte Carro (comel. Ciar, Cèr). Il nome comeliano significa in effetti 'carro' ma per taluni è da vedervi un'antica forma di 'chiaro' (spoglio di vegetazione?). Propendiamo tuttavia per una derivazione dalla base pre-indoeuropea *kar che si riferisce a luoghi rocciosi. Di rimpetto al Rinaldo il noto gruppo delle Terze con il Monte Terza Piccola (comel. Tèrza Pìzla; a. 1532 Terza Piccola), Monte Terza Media (comel. Tèrza Mdana, a. 1532 Sasso di Terza Grande), Terza Grande (comel. Terza Granda, a. 1535 Croda de Tamarì). Notiamo che il nome Terza Media è un'invenzione recente: nelle carte antiche questa era la Grande mentre quest'ultima prendeva il suo nome dall'antica mónte di Tamarile. Per quanto riguarda la probabile etimologia di terza diremo parlando del gruppo dei Brentoni, cui ci introducono le Crode di Mezzodì (comel. Le Cròde d Med'dì). Qui il riferimento alla culminazione solare, rispetto agli abitati di Campolongo e Costalta, è evidente. Alle pendici settentrionali di queste sta il Monte Còl comel. Còl, il colle per antonomasia per gli abitanti del fondo valle, cui sottrae per lunghi periodi il sole. L'accostamento dei due termini geografici non è contraddittorio a patto di intendere mónte nel senso di 'prati segativi di alta montagna', come si fa nel Laudo della Regola di Santo Stefano del 1642, quando si parla di "siegar nel Monte di Col". Sul lato opposto del Col il Monte Cornon (comel. Cornón). Piuttosto che una possibile metafora oggettuale, suggerita dalla forma del monte simile ad un grosso corno, preferiamo far derivare il nome da cuniculus (che sta alla base anche del comel. cornón 'cannella della fontana') nel senso di 'condotto d'acqua sotterraneo' con riferimento al rio con cascata che affiora alla base del monte.

Finalmente il Monte Brentoni, il cui nome è passato, nella toponomastica ufficiale, a designare anche tutto il gruppo. Per i locali i Brontonate sono le conche alpestri poste ai piedi delle pareti nord del monte. Questi ciadìns, spesso fumiganti di vapori, possono aver suscitato l'immagine di grandi mastelli da bucato, in comeliano brontógn (dal ben noto termine probabilmente preromano *brenta). E alla metafora può aver contribuito anche l'aspetto delle sovrastanti pareti rocciose, lisce ed inclinate come tavole per lavare. Di questa lunga giogaia, che chiude l'orizzonte del Comelico verso mezzogiorno, si parla nel XVI secolo come del "mons longissumus nomine Mauria", nome che trova riscontro nel pascolo della Fedèra Màuria alle falde del Pupèra e che viene da maurus 'oscuro' 'boscoso'. Dai piani di Danta essa costituiva il riferimento per l'orologio solare dei pastori, per i quali i Brentoni erano la Zima dle Diés (10), il Popèra Valgrande la Zima dle Undze (11), il Crissin la Zima d Mdodì (mezzodì) e la Bergagnina la Zima dl Una (13): tali dunque gli autentici nomi comeliani di queste vette. Le denominazioni sono date secondo il sistema orario moderno. Affacciamo l'ipotesi che il nome delle Terze - che dai Piani di Danta segnano le 9 - venga da hora tertia cioè le nove del mattino secondo il sistema latino medievale, e sia la sopravvivenza di una precedente serie di nomi attribuiti in base a questo più antico metodo.

Più a occidente la tavoletta IGM distingue la Cresta dei Castellati da I Castellati (comel. I Ciastlate), conca di magro pascolo posta sotto la cresta anzidetta e caratterizzata da torrioni squadrati frutto della frantumazione dell' enorme lastronata rocciosa sovrastante. Proprio alla loro forma, che richiama in qualche modo i torrioni di un castello, è dovuto il nome della conca che è passato poi alla cresta sommitale. Il Monte Popèra Valgrande deve il suo nome alla sottostante Val Popèra (comel. Npopèra) una della quattro località comeliane con questo nome (vedi sopra). L'aggiunta di 'Valgrande', allo scopo di distinguere questo monte dal Popèra di Comelico Superiore, appare del tutto arbitraria, in quanto la Val Granda è sotto il Monte Brentoni. Completa la ricognizione delle cime comeliane del gruppo il Monte Crìssin (comel. Crìzi; a. 1519 Croda de Crizzui, a. 1775 Cricin). Nel dialetto di Costalissoio crizi (pl.) vuol dire 'precipizi' 'luoghi pericolosi' 'burroni' e certamente il toponimo si riferiva in origine ai fianchi assai scoscesi del monte, ma l'étimo del termine resta oscuro. Di fronte al Crìssin, di là dal solco del Piave, si eleva il Monte Piédo (comel. Còl d Piédo; a. 1739 Col di Piedo). Quest'ultima elevazione, modesta ma dal panorama grandioso, riceve il suo nome dal sottostante Piédo, segativo di Danta citato in un documento dell'anno 1600 come "Regola di Piedo": in effetti era questa anticamente una regola autonoma poi soppressa, ma certamente ancora esistente nel 1665. Forse da placitum 'disputa' oppure 'accordo' l'origine del nome.

A conclusione della nostra rassegna desideriamo soffermarci su quello che è certamente il toponimo più celebre del Comelico, per il quale si sono cimentati in molti nel vano tentativo di spiegarne il significato. Parliamo naturalmente di Visdende (Viò dénde; a. 1327 pasculo Visdendis, a. 1565 [trascrizione di documento più antico] i pradi di Visidende). Come dimostrano gli antichi documenti ed anche l'uso odierno del toponimo da parte dei pastori, il nome non era riferito a tutta la valle bensì era ristretto ad una parte dei pascoli dei piani (probabilmente ai soli Prà della Fratta e Prà Marino). La forma antica Visidende fa pensare, tra varie ipotesi, che si tratti di un derivato di vicem che però darebbe *visende (con radice vis- come nel termine comeliano viò indiér che indicava colui che, nella regola, ricopriva un incarico che andava a turno). La difficoltà si vince partendo dalla variante dell'accusativo regolare di vices che è *vicite, da cui il lucano vicitë 'turno' 'vicenda' e l'abruzzese vecëtë. In generale vicem, con la sua variante *vicite, ha prodotto in molte lingue romanze una serie di termini pastorali che si riconducono tutti al significato di 'avvicendamento' (nella custodia del bestiame) oppure di 'branco di animali domestici'. Ecco dunque donde partire per ricercare il significato di Visdende, che verrà da un *vicitende con -ende pl. di -enda come in 'vic-enda' e con analogo significato: cfr. 'a vicenda' = 'a turno'. Anche se non siamo in grado di chiarire meglio il termine, è verosimile supporre che esso si riferisse all'alternanza o nello sfruttamento delle aree pascolive del fondo valle (esse sono tuttora proprietà indivisa di nove regole), o nella sorveglianza del bestiame ivi pascolante.

Piergiorgio Cesco-Frare

*da "Le Dolomiti Bellunesi", Estate 1996, ripreso ne "I Monti del Comelico", riedizione a cura della Sezione "Val Comelico" del C.A.I., giugno 2000.