Le ultime pulsioni fredde del Tardiglaciale würmiano concludono, circa
10.000 anni fa in concomitanza della prima fase di riscaldamento dopo l’ultima
grande glaciazione, il lungo periodo del Paleolitico e, per convenzione,
comincia anche un nuovo periodo geologico: l’Olocene, caratterizzato
antropologicamente, al suo inizio, dalle società di cacciatori-raccoglitori
dell’orizzonte culturale denominato Mesolitico, che si svilupperà nelle
nostre regioni lungo un arco temporale di 3500 anni (10.000-6500 anni dal
presente), tra la fine del Paleolitico superiore e l’inizio del Neolitico, il
quale segnerà l’introduzione della pratica agricola e dell’allevamento.
L’uomo
del Mesolitico, dedito come i suoi predecessori a un’economia sostanzialmente
legata alla caccia e alla raccolta dei prodotti vegetali spontanei, è favorito
nella pratica delle sue attività di sussistenza dai cambiamenti climatici del
postglaciale olocenico, che porteranno a un progressivo aumento delle
temperature, scandito dai periodi climatici del Preboreale (10.000-9000 anni dal
presente) caratterizzato da clima temperato secco, del Boreale (9000-7500 anni
fa) caldo-arido e infine dell’Atlantico (7500-5000 anni dal presente) caldo e
umido.
Il
Mesolitico dell’Italia settentrionale se, da un lato, manifesta un’evidente
continuità con la precedente cultura epigravettiana della fine del Paleolitico
superiore, mostra però anche notevoli variazioni nei caratteri delle industrie
litiche. Queste variazioni, dettate verosimilmente dalla pratica di nuove
tecniche e strategie venatorie, consistono in un’accentuata microlitizzazione
degli strumenti, nell’uso generalizzato del ritocco erto e del ritocco
bilaterale e in un’ampia diffusione della tecnica del microbulino finalizzata
alla produzione standardizzata delle armature da inserire nelle armi da getto
per aumentarne l’efficacia.
Il Mesolitico è poi suddiviso al suo interno in due grandi fasi in base
alle serie culturali di riferimento ricavate dalle analisi cronostratigrafiche
d’alcuni siti pluristratificati “pilota” dell’area trentina (in
particolare Romagnano-Loc III, Pradestel, Vatte di Zambana), le quali hanno
permesso di ricostruire una sequenza insediativa che va dall’inizio
dell’Olocene alla transizione col Neolitico. Secondo una proposta,
le due fasi: il Mesolitico antico o Sauveterriano (da Sauveterre-la-Lémance in
Francia, dove per la prima volta fu individuata questa industria litica)
databile a 10.000-7800 dal presente, caratterizzato dalla diffusione di
strumenti geometrici quali triangoli soprattutto scaleni, segmenti, punte di
Sauveterre con uno o due margini abbattuti da ritocco erto, lamelle a dorso
abbattuto, grattatoi su scheggia più o meno circolari; e Mesolitico recente o
Castelnoviano (da Châteauneuf-les-Martigues, nei pressi di Marsiglia, dove fu
documentata questa industria litica, 7800-6500 anni dal presente), in cui si
assiste alla diminuzione e scomparsa dei geometrici triangolari a favore di
quelli trapezoidali e a una forte presenza di industria laminare.
In
questa suddivisone cronologica del Mesolitico (che prevede al suo interno altre
sottofasi determinate da lievi cambiamenti nella morfologia delle armature)
appare evidente come l’elemento discriminante che demarca il passaggio dal
Mesolitico antico a quello recente sia indicato dall’uso di forme geometriche
drasticamente diverse nell’apprestamento delle armature da getto: triangoli e
segmenti nella prima fase, trapezi nella seconda (fig. 1). La produzione così
intensiva di piccole (a volte addirittura ipermicrolitiche) armature
geometriche, da immanicare in aste di legno a mo’ di punte da getto,
lascerebbe ipotizzare, già in questa età preistorica, l’uso dell’arco,
anche se alla luce delle attuali ricerche non è possibile confermarne per la
nostra regione l’oggettivo utilizzo, in considerazione della totale assenza di
questo tipo di reperto nei siti italiani (fig. 2).
Sappiamo invece che frammenti di arco, risalenti alla fine del Boreale (circa 8000 anni dal presente), sono stati invece rinvenuti in torbiere del Nord Europa, mentre parallelamente abbiamo attestazioni iconografiche del suo uso nei dipinti parietali scoperti in varie località del Levante spagnolo, i quali raffigurano spesso cacciatori impugnanti l’arco, ritratti in dinamiche azioni di caccia.
Le
ricerche
La
presenza dell’uomo del Mesolitico all’interno del territorio bellunese è
assai diffusa e piuttosto diversificata geograficamente. Le sue tracce sono
evidenti soprattutto nella fascia d’alta montagna compresa fra i 1800 e i
2200 metri, ma si riscontrano anche nelle zone di media montagna fra i 1000 e
i 1600 metri d’altitudine e nei fondivalle, a dimostrazione dell’uso
differenziato dell’ambiente e delle risorse che esso poteva offrire.
Dopo i
primi ritrovamenti d'industrie mesolitiche avvenuti negli anni
sessanta-settanta del secolo scorso nell’area atesina, già nei primi anni
ottanta un programma di ricerche di superficie condotto da alcuni membri
dell’Associazione degli Amici del Museo di Belluno - cui fecero séguito
proficue prospezioni di altri gruppi di appassionati d’archeologia, profondi
conoscitori del territorio, quali gli Amici del Museo di Selva di Cadore, il
gruppo culturale Ippogrifo di Feltre e l’ARCA di Àgordo - portarono alla
luce anche nella nostra provincia un notevole numero di testimonianze
mesolitiche: siti residenziali, campi base, bivacchi e appostamenti di caccia
e di avvistamento o semplici aree di frequentazione.
Queste
testimonianze e l’elaborazione della loro distribuzione e mappatura sul
territorio bellunese sono frutto, in massima parte, di semplici ricerche di
superficie che hanno consentito esclusivamente il ritrovamento di manufatti in
selce, a volte
Se
indubbiamente l’aspetto più importante e conosciuto della presenza
mesolitica nel Bellunese è rappresentato dallo straordinario ritrovamento di
una sepoltura datata circa 7000 anni fa e rinvenuta (per merito di Vittorino
Cazzetta) sotto un grande masso aggettante, che aveva offerto ricovero agli
antichi cacciatori, in località Mondevàl de Sóra (San Vito di Cadore) a
2150 m di quota, non si devono tralasciare in questo quadro di diffusione
antropica le decine d’altri siti del periodo, meno noti, ma in ogni caso
d’estrema importanza, che costellano la nostra provincia, rimarcando ed
esaltando, nello stesso tempo, l’intraprendenza dell’uomo del Mesolitico,
già esperto conoscitore di sentieri e piste tuttora ricalcate dal moderno
escursionismo.
La
diversa tipologia dei siti di questa età è da mettersi in correlazione alle
attività di sussistenza e in particolare alle strategie venatorie. Possiamo
così definire come siti residenziali i veri e propri agglomerati più
organizzati che rivelano tracce di focolari e di strutture più complesse o più
semplicemente la presenza di tutto quell’insieme di strumenti litici (grattatoi,
raschiatoi, perforatori, lame e lamelle, bulini, armature ecc.), i quali
sottendono la pratica d’attività varie e tali da richiedere una stanzialità
almeno temporanea e un’organizzazione spaziale che preveda ricoveri per la
notte, aree specializzate per la produzione dei manufatti, zone adibite alla
macellazione degli animali, all’essiccazione delle carni e all’eventuale
concia e lavorazione delle pelli. Funzioni che dovevano avere, forse in chiave
più ridotta, anche i campi base intermedi da cui partire per le battute di
caccia nei dintorni dove poi nei punti più strategici, erano attrezzati
bivacchi secondari d’avvistamento, di caccia e ancora piccoli siti
transitori dove avveniva la produzione e la rifinitura delle armature.
Le
limitate campagne di scavo condotte con metodo stratigrafico dall’Istituto
di Geologia dell’Università di Ferrara su segnalazione di gruppi locali:
Mondevàl de Sóra (A. Guerreschi - Amici del Museo di Selva di Cadore) e
altipiano del Cansiglio (M. Peresani - Amici del Museo di Belluno)
acquisiscono in questo quadro una valenza essenziale come punto di
riferimento, di confronto e di comparazione per l’interpretazione
archeologica dei numerosi siti di superficie.
La
corrispondenza cronologica e culturale tra i siti di fondovalle e quelli
d’altura si manifesta attraverso un modello logistico unitario ed è
comprovata anche dall’analisi delle provenienze del materiale litico
utilizzato dai cacciatori per confezionare i propri strumenti. La mancanza di
selce in area dolomitica induceva, infatti, le bande dei cacciatori a
trasportare, durante le lunghe marce d’avvicinamento dai quartieri invernali
ai luoghi di caccia d’alta montagna, quantitativi di materiale grezzo,
prelavorato o lavorato, raccolto verosimilmente nelle zone ricche
d’affioramenti delle formazioni geologiche della Scaglia Rossa (la più
rappresentata nei nostri ritrovamenti d’altura) e del Biancone del settore
prealpino e dei primi contrafforti alpini del Bellunese e del Trentino
meridionali.
Gli approvvigionamenti erano poi integrati
soprattutto nei siti più settentrionali, anche se in maniera sporadica, dal
cristallo di rocca o quarzo ialino proveniente dalle Alpi Aurine e dagli Alti
Tauri e in qualche caso dalla rara selce dolomitica di scarsa qualità, nonché
eccezionalmente da materiali locali quali la tufite e il diaspro.
I siti in area alpina
Il
fenomeno delle frequentazioni d’alta quota si delinea, in considerazione del
numero dei siti ritrovati, come il più appariscente e indubbiamente il più
straordinario, se allarghiamo le nostre riflessioni dagli oggettivi dati
archeologici, comprovati dalla presenza dei reperti litici rinvenuti nei siti,
al sistema logistico che induceva bande di cacciatori a migrare verosimilmente
dalle aree residenziali invernali di pianura, collina o fondovalle, attraverso
le Prealpi sino all’interno della zona dolomitica a caccia dei grandi
ungulati quali stambecchi, camosci, cervi e caprioli.
I siti
d’alta quota si configurano, dal punto di vista ambientale, come modelli
piuttosto ricorrenti e ripetitivi legati alle strategie di caccia: essi si
rinvengono a ridosso di forcelle o passi alpini dove era più facile
sorprendere gli animali nel passaggio da una valle all’altra, in posizione
di controllo sulle valli sottostanti, in aree prative umide o con pozze,
acquitrini o piccoli laghetti per l’approvvigionamento dell’acqua, o
ancora in vicinanza di massi aggettanti o sottoroccia tali da offrire riparo
notturno. L’ubicazione degli insediamenti mesolitici dolomitici è
generalmente posta al limite fra il bosco e la prateria, così da sfruttare i
due diversi ambienti naturali per un’attività venatoria diversificata con
battute rivolte sia agli animali ospiti del bosco quali cervo e capriolo, sia
a quelli sia vivono nelle praterie alpine e sui balzi rocciosi quali
stambecco, camoscio e marmotta (fig. 6 ).
Si può immaginare che gli itinerari di avvicinamento ai siti d’altura seguissero i principali segmenti idrografici lungo percorsi geograficamente memorizzati. Infatti, «i bacini imbriferi servono da sentieri naturali di migrazione per molte specie selvatiche che hanno migrazioni ad ampio raggio dalla fascia estiva di altezza elevata alla fascia invernale di altezza inferiore, o che utilizzano gli habitat ripari. Inoltre i modelli della transumanza (lo spostamento stagionale del bestiame) avvengono spesso entro i confini del bacino imbrifero». Detto ciò, occorre tuttavia tener presente che nell’Olocene inferiore (10.000-5000 anni fa) le condizioni morfologiche, soprattutto nei fondivalle, erano alquanto diverse dalle presenti a causa, in particolare, dei numerosi specchi lacustri post-glaciali. A ogni modo, era attraverso la capillare rete idrografica che si raggiungevano gli acrocori e le dorsali delle nostre montagne, ove poi gli spostamenti avvenivano ad alte quote. A questo criterio ci siamo ispirati nell’esposizione che segue, attenendoci, nella descrizione delle singole zone, alla ripartizione in gruppi montuosi prevalentemente usata nella letteratura alpinistica
Siti del bacino superiore del Piave
Iniziamo dunque il nostro viaggio seguendo l’asta principale del Piave,
notando che le zone poste sulla sinistra idrografica non annoverano nessun sito,
mentre in destra idrografica s’incontra anzitutto l’unico sito sinora
scoperto nel gruppo delle Marmarole. Questo gruppo, assai esteso e tormentato,
è posto a cavallo delle vallate dei torrenti Ansiei e Bóite, sulle quali si
eleva con fianchi assai dirupati ed impervi, quasi invalicabile barriera tra
esse. Solo nel suo lato orientale, che si affaccia sulla valle del Piave, esso
presenta una breve zona di altopiano dalle dolci ondulazioni e dagli accessi
relativamente agevoli. E’ questa la sede dell’unico sito sinora scoperto (N.
e P. Cesco-Frare, G. e M. De Zolt 2000). Esso è situato proprio sulla
forcelletta di quota 1800 m sulla cresta displuviale, che scende dal monte Ciarìdo
verso il Col Cervèra, dove convergono le testate di alcune vallette. E’ il
luogo conosciuto come Pian dei Buoi (Lozzo di Cadore), che presenta
all’intorno alcune zone umide e non lontano l’impronta di quello che deve
essere stato un piccolo bacino lacustre. I pochi reperti di selce (un nucleo di
selce marrone di discrete dimensioni, una lamella di selce grigia e alcuni
residui di lavorazione) sono suscettibili di una generica attribuzione al
Mesolitico.
La storia delle ricerche s’inizia con le prospezioni di R. Lunz (1983 e
1985) nella piana di Hochmoos (Sesto, BZ), che mettono in evidenza due
siti. Continua poi negli anni dal 1998-2004 per opera degli Amici del Museo di
Belluno nel resto del comprensorio. La frequentazione della zona dovette
comprendere campi
residenziali
posti alle quote più basse attorno a quelli che dovevano essere dei vasti
bacini lacustri della conca di Hochmoos (3 siti: a 1800, 1805 e 1810 m) e anche
sui piani di Visdende in località Gió d’Ólmi a m 1300 (N. e P.
Cesco-Frare 2004), e campi di caccia e avvistamento alle quote superiori in zone
di passo. Oltre, infatti, a sporadici ritrovamenti a m 1900 e 1920 a Pian di
Màzzes in posizione dominante sulla conca di Némes e a m 1900 nei pressi
della casera di Coltrondo (N. e P. Cesco-Frare 2001), manufatti di selce
sono stati raccolti anche sulla Costa della Spina (comune di Comelico
Superiore) a m 2135 e 2030 (N. e P. Cesco-Frare, C. Mondini e altri 2000) e
sull’altra Costa della Spina di Londo in comune di S. Pietro di Cadore
a m 2085 e 2050 (M. Catello, P. Cesco-Frare, A. Villabruna 1998). Questi ultimi
quattro punti sono particolarmente caratteristici poiché situati in posizioni
molto panoramiche sui pascoli d’alta quota e prossimi a pozze d’acqua.
Inoltre, sulle pendici orientali del monte Arnese/Hornischegg a 2500 m di
quota e già in territorio austriaco, è stato raccolto (N. e P. Cesco-Frare
2002) un frammento di strumento di selce, che testimonia come la pratica
venatoria spingesse questi uomini anche ad altitudini davvero impensate.
Ma
il sito più importante è quello recentemente individuato sulla forcella tra il
Col della Crodatta e il Col Rosson a circa 2220 di quota, dominante la
Val Larga, ampio circo ricco d’erbe e acque (N. e P. Cesco-Frare 2005). I
materiali raccolti e la posizione del sito fanno pensare ad un importante campo
d’alta quota. Le materie prime impiegate per alcuni manufatti (tufite e
quarzite, e inoltre un tipo di selce scura) sono reperibili nelle formazioni
rocciose locali e testimoniano, ancora una volta, la capacità di sfruttamento
delle più svariate risorse da parte degli intraprendenti
cacciatori-raccoglitori antichi. I manufatti complessivamente recuperati (è
asssente il cristallo di rocca), sono attribuibili a un Mesolitico
indeterminato.
Il
fenomeno della frequentazione delle nostre montagne da parte dei cacciatori
mesolitici pone alcune domande: in quale stagione, per quali scopi, in quanti si
movevano, da dove arrivavano e attraverso quali percorsi. A una parte di queste
domande sono già state fornite risposte convincenti, grazie soprattutto alle
indagini di scavo compiute nei siti al coperto. Altri aspetti della questione -
particolarmente quelli che riguardano la provenienza e gli accessi - sono, allo stato attuale delle ricerche, ancora problematici.
Possiamo però, con l’aiuto di alcuni indizi e deduzioni, avanzare qualche
congettura che ci pare non del tutto infondata, ma che dovrà naturalmente
trovare conferma o smentita da più scientifici studi e ricerche.
La
stagione e gli scopi. Che le frequentazioni delle alte quote da parte dei
cacciatori-raccoglitori mesolitici fossero un fenomeno stagionale strettamente
legato alla bella stagione è dato per scontato, poiché appare insostenibile
ammettere che gruppi di queste genti potessero sopravvivere in un ambiente tanto
ostile quale quello invernale d’alta montagna.
Dobbiamo, dunque, pensare a un’organizzazione logistica di tipo nomade, che
prevedeva un campo residenziale invernale situato in zone collinari e di
pianura, e una serie di campi mobili via via risalenti verso le praterie alpine
secondo il progredire della stagione favorevole. Lo studio sui resti di pasto
rinvenuti nel riparo mesolitico d’alta quota di Plan de Frea in val Gardena
mostra una frequentazione del luogo da luglio a novembre (questo aspetto
stanziale, che si protrae fino ad autunno inoltrato, è da mettersi in relazione
col clima del periodo, più secco e arido dell’attuale). È dunque lecito
pensare che la permanenza nelle quote più elevate avvenisse nel periodo
estate-autunno secondo uno schema che perseguiva la gestione e lo sfruttamento
ideale delle risorse del territorio. Assecondando i cicli stagionali della fauna
e della vegetazione, si potevano, infatti, cogliere i momenti più favorevoli di
ciascun ambiente per esercitarvi la caccia, la pesca e la raccolta di frutti,
bacche ed essenze vegetali a mano a mano che questi maturavano e crescevano alle
varie quote. Operando con questa sorta di nomadismo itinerante, si evitava anche
l’eccessivo depauperamento delle risorse faunistiche di un singolo habitat,
scopo non certamente secondario per il trasferimento stagionale sui monti
accanto a quello importante dell’approvvigionamento d’abbondanti scorte di
proteine animali da consumare con la propria comunità prevalentemente sul posto
(così riteniamo in considerazione delle difficoltà di trasporto a valle di
cospicue quantità di cibo nel lunghissimo trasferimento dai monti alla
pianura). In questa prospettiva, particolarmente privilegiata dall’uomo del
Mesolitico dovette essere la fascia di transizione tra la foresta e la prateria alpina - di
altitudine variabile a seconda delle fasi climatiche dell’Olocene antico –,
fascia dove in effetti si possono rilevare le più alte concentrazioni di siti,
come mostrano anche i dati contenuti nel presente contributo (cfr. tabella
altimetrica di fig.15). È in questa zona di ecotono verticale, ossia di
transizione tra le due biocenosi del piano montano e del piano cacuminale, in
parole povere dal bosco al pascolo alpino, che troviamo la più alta densità di
specie e di individui sia animali che vegetali. Riferisce A. Guerreschi a
proposito del sito VF1 di Mondevàl che «la preda preferita era il cervo e in
seconda istanza lo stambecco. Questa constatazione fa pensare che una delle
motivazioni del nomadismo stagionale montano fosse proprio la caccia al cervo,
il qual migra stagionalmente in senso altimetrico». Un recente studio, condotto
proprio in una delle zone descritte nel presente lavoro, confermano
l’affermazione soprariportata. Difatti, l’osservazione degli spostamenti in
senso altimetrico della popolazione di Cervus elaphus L. nelle varie
stagioni rivelano che questa specie è totalmente assente durante l’inverno
nelle fasce superiori ai 1600 m di quota, mentre dimostra «in primavera, estate
e autunno una preferenza per le aree elevate, caratterizzate nel Parco da vaste
zone a prateria alpina al di sopra delle superfici forestali, mentre nella
stagione invernale sono frequentati soprattutto i fondovalle, in genere molto
boscati». Al contrario, lo stambecco, come è noto, frequenta quote assai più
elevate, come confermano, anche in questo caso, osservazioni effettuate nella
nostra provincia, e precisamente nel gruppo delle Marmarole, secondo le quali la
quota media annuale degli avvistamenti è a 2172 m, quota che l’inverno scende
a 2019 m, con preferenza per le zone dove la prateria alpina è inframezzata da
rocce e ghiaioni. Bisogna dunque concludere che, mettendo nel novero anche il
camoscio e il capriolo, frequentatori, insieme coi relativi predatori, di queste
zone nella medesima stagione, nonché la marmotta, l’orso e i vari volatili,
nel periodo estate-autunno le alte quote presentano una quantità e varietà di
selvaggina tali da essere terreno di elezione per le bande di cacciatori.
Altrettanto, non si devono trascurare le possibilità alimentari offerte in tale
territorio di montagna dalla raccolta dei frutti selvatici e delle
bacche che maturano dalla fine dell’estate sino all’autunno inoltrato. Si
vedano in proposito le considerazioni, riferite a Monti Cantabrici e ai Pirenei,
di J.L. Arsuaga, il quale afferma, per esempio, che il mirtillo può arrivare a
produrre anche 200 kg per ettaro di bacche, che gli orsi avidamente ricercano.
In quanti si movevano. Non è possibile stabilire, in base ai dati
tuttora in possesso degli studiosi della materia e alle indagini archeologiche
condotte finora sull’arco alpino, il numero e la composizione dei gruppi
itineranti. Possiamo, per ora,
Di dove
venivano. È ben vero che il corso del Piave e dei suoi affluenti segna la via
più breve per l’accesso dalla pianura al cuore delle Dolomiti, ma da ciò non
possiamo trarre la certezza che tutti i siti sinora scoperti fossero frequentati
da genti provenienti dall’area pedemontana bellunese-trevigiana e non possiamo
escludere che almeno certe zone, soprattutto nell’area settentrionale della
provincia, fossero battute stagionalmente da gruppi provenienti dalla regione
atesina. È necessario premettere che la mancanza di ritrovamenti non vuol
significare assenza di frequentazione (infatti tale mancanza può essere dovuta
a carenza di ricerche oppure a sfavorevoli condizioni di conservazione dei
paleosuoli, oppure ancora ad assenza di comunicazioni in merito ad eventuali
scoperte). Se gettiamo uno sguardo alla cartina delle stazioni mesolitiche in
Provincia di Belluno, notiamo subito una grande concentrazione di queste nel
bacino del Cordévole, con i suoi affluenti Bióis e Fiorentina, e del Maè. Ciò
contrasta, stranamente vorremmo dire, con l’assoluta mancanza di segnalazioni
in tutta l’area che gravita sul bacino del Bóite (se si eccettuano i
marginali ritrovamenti del passo Falzàrego e del versante nordorientale del
passo Giau), e la scarsità di essi lungo l’asta principale del Piave (Pian
dei Buoi, Comèlico). Giova ora esaminare lo stato delle ricerche nelle
provincie limitrofe. Se consideriamo la situazione delle scoperte di siti
mesolitici di alta quota nel vicino Friuli, vediamo che esse, di per sé rare
(si contano in tutto sette stazioni nell’arco delle Alpi Carniche orientali e
delle Alpi Giulie), sono del tutto assenti nell’area confinante con il Cadore,
aprendo dunque uno iato molto ampio tra le due aree. Se, invece, volgiamo lo
sguardo a occidente, troviamo una fitta rete di stazioni mesolitiche un po’ in
tutta la montagna trentina e altoatesina centro-meridionale, soprattutto
addensate nei bacini dell’Isarco e dell’Avisio e dunque a ridosso del
confine occidentale della nostra provincia. In particolare, pare non esservi
soluzione di continuità geografica tra i siti del passo Rolle (con quelli
famosi del Colbricón) e del S. Pellegrino e i siti del bacino del Bióis (Vallés,
Zingari Bassi). Recenti studi hanno portato ad affacciare l’ipotesi che il
settore occidentale del Lagorai fosse interessato da una frequentazione dalla
valle dell’Àdige, mentre quello orientale dalle Prealpi venete. Altro
elemento che ci può aiutare nello stabilire la provenienza dei cacciatori
mesolitici, è costituito dalla materia prima per eccellenza da essi dispersa:
la selce e i suoi succedanei. Anche qui occorre fare delle premesse. Anzitutto
l’esame microstrutturale dei reperti non è stato, per quanto ne sappiamo,
condotto se non in minima parte e resta comunque assai problematico individuare
con esso esattamente le zone di approvvigionamento. Ci si basa dunque, per
quanto può valere, principalmente sull’esame macroscopico e su considerazioni
di carattere geomorfologico. Secondariamente, la circolazione delle materie
prime doveva essere anche a quei tempi tutt’altro che limitata, come
dimostrano ritrovamenti di materiali alloctoni a distanze molto notevoli dai
luoghi di origine (emblematico il ritrovamento di selce proveniente dal nostro
monte Avena nel sito mesolitico austriaco di Ullafelsen, Tirolo occidentale. La
presenza del quarzo ialino (ovvero cristallo di rocca) nei siti del nord-ovest
della provincia (bacino del Cordévole) fa accostare questi siti a quelli
alto-atesini di nord-est e alle relative zone di approvvigionamento (Alpi Aurine
e Venoste).
Quali gli itinerari percorsi. Già abbiamo detto della difficoltà di
partenza costituita dal fatto di doversi muovere col gruppo famigliare al
completo. Un serio ostacolo doveva anzitutto rappresentare l’attraversamento
della Val Belluna, solcata da un fiume Piave con portata di gran lunga maggiore
all’attuale e costellata dai residui dei bacini lacustri postglacali.
L’approccio alle Dolomiti, poi, doveva risultare particolarmente impervio
proprio nei punti di ingresso (si pensi ai vari “canali” del Piave,
dell’Ardo, del Cordevole ecc., i quali però all’epoca erano meno profondi).
È probabile che i gruppi si spostassero simultaneamente, potendo così contare
sul mutuo aiuto dei loro membri. Relativamente più agevole sarà stato poi
muoversi in quota sugli altipiani e acrocori dei massicci montuosi, sgombri di
vegetazione. Qui i clan si saranno divisi secondo un piano preciso di
occupazione del territorio, allo scopo di averne il completo controllo anche ai
fini delle strategie di caccia. Avranno verisimilmente seguito la fitta rete di
sentieri tracciati dagli animali stessi e conservatisi poi aperti per effetto
dei passaggi stagionali dei gruppi di cacciatori itineranti sul territorio.
QUADRO
RIASSUNTIVO DEI SITI MESOLITICI
IN PROVINCIA DI BELLUNO
*Nella suddivisione cronologica del Mesolitico in
Sauveterriano e Castelnoviano, si è assunto empiricamente come elemento
discriminante la presenza nei siti di armature geometriche triangolari (Mesolitico
antico) oppure trapezoidali (Mesolitico recente).
SITI
DEL BACINO SUPERIORE DEL PIAVE |
||||
LOCALITA' |
QUOTA |
TIPOLOGIA |
ATTRIBUZIONE
CULTURALE |
AUTORE
E ANNO DI SCOPERTA |
Pian
dei Buoi (Lozzo), forcella di- |
1800
m |
sito
all'aperto |
Mesolitico
indeterminato |
N. e
P. Cesco-Frare, G. e M. De Zolt, 2000 |
Gió
d'Olmi (Visdende, S.Pietro di C.) |
1300
m |
sito
all'aperto |
Mesolitico
indeterminato |
N. e
P. Cesco-Frare, 2004 |
Coltrondo
(Comelico Superiore) |
1900
m |
sito
all'aperto |
Mesolitico
indeterminato |
N. e
P. Cesco-Frare, 2001 |
Spina
di Comelico Superiore |
2030
m |
sito
all'aperto |
Mesolitico
indeterminato |
N. e
P. Cesco-Frare, 2000 |
Spina
di Comelico Superiore |
2135
m |
sito
all'aperto |
Mesolitico
indeterminato |
P.
Bassanello, R. e U. Casanova, M.
De Zolt N e P. Cesco-Frare, C. e F. Mondini |
Costone
della Spina di Londo (Valle di Visdende, comune di S. Pietro di Cadore BL)
|
da
2050 a 2085 m |
sito
all'aperto |
Mesolitico
indeterminato |
M.
Catello, P. Cesco-Frare, A. Villabruna |
Col
della Crodatta (Comelico Superiore) |
m
2220 |
sito
all'aperto |
Mesolitico
indeterminato |
N. e
P. Cesco-Frare, 2005 |