Dall'interssante pubblicazione dello storico Achille Carbogno edito dall'Università Adulti/Anziani di Belluno - Sezione Comelico-Sappada.

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(Della pubblicazione si riporta: la copertina, la presentazione, la malga Campobon di Costalissoio)

 

PRESENTAZIONE


È appassionante iniziativa e affascinante esperienza la proposta dell’UA/A di Belluno di stimolare l’attività di “Scrittura creativa” offerta ai suoi Corsisti con il Giornale “Sempreverde” e con il Concorso “Creatività”. Ancor più avvincente è la scelta delle Sezioni di realizzare composizioni o raccolte in proprio, come quelle di Agordo (“Il sentiero geologico”), della Destrapiave (“Il Pizzocco racconta”) ed ora “La civiltà dell’alpeggio - Le casère del Comelico” di Achille Carbogno della Sezione del Comelico/Sappada.

È un portare alla luce noi stessi e comunicare esperienze, vincere la paura di sapersi “letti”, di venire giudicati, di sfidare il tabù della pagina bianca. E questo significa estrarre dalla propria vita i personaggi più significativi, scegliere dal proprio territorio il paesaggio ritenuto prioritario, delineare i significati della propria storia. Perché in ognuno c’è una favola che vale la pena di scrivere per sé e per gli altri, ci sono ricordi da riscoprire e da regalare per far risuonare negli altri una memoria, un sorriso, un ciao, un augurio. E così che, riportando su un foglio una vicenda della propria vita, la rendi perenne, poni cioè un freno al suo fluire e al suo galleggiare a causa dell’accavallarsi di rapporti, di emozioni, di situazioni e di relazioni. Scrivere è esistere ed è scandire la vita con righe vergate, raccolte nelle pagine del diario di bordo del viaggio personale e familiare.

Ed ecco Achille Carbogno, che, con semplici ma sorprendenti note, musicate con ritmo lineare e scandite da toni pacati come i Piani di Danta, illustra “Le Monti dell’identità comeliane”, le 22 casère che sigillano la civiltà dell’alpeggio, e ben descrive la cultura della montagna e il “turismo” degli animali. Sono paesaggi che generano e nutrono un comune sentire e affrescano, in sintesi, un quadro di ambiente e di abitanti, di attività e di abitudini. Godiamo di una corona unitaria di prati e di boschi, di colori e di pascoli, tra casère e tabià, dove, più che la verticalità, domina il graduale e dolce declivio seguito dalla gamma di picchi e balze, di dirupi e terrazzi, di canaloni e pianori in una varietà di forme orizzontali di morbida geografia. E museo aperto di beni naturali, fattore identitario di un territorio definito e tipicizzato; testimonianza eccezionale di transumanze e monticazioni estive; bellezza di spettacoli paesaggistici, architettura naturale che affonda le radici in lontananze di sconvolgimenti marini; valori turistici, però, addormentati da illusorie industrie; agricoltura e zootecnia bloccate da ingenui sogni di attività più produttive.

Io lassù c’ero e ci sono ancora. Ritorno con allegro orgoglio di appartenenza a quel mondo alto del verde Comelico. Più passano gli anni e più tornano alla memoria i ricordi più lontani e i pensieri più cari. E le pagine de “Le casère del Comelico” diventano intime per me e si vestono di colori, respirano gli odori, si colmano di voci, si nutrono di erbe, si ombreggiano di piante, mentre squillano i campanacci tra il muggire degli animali e le voci dei pastori nelle vallate di Valgrande e Val Visdende. E il filmato di età spensierata, di teneri incontri, di sudate giornate, di corse e rincorse, di tuffi e rotoloni. Provo una sensazione di immensa pace nel ridire le malghe: Mlin, Dignàs, Cécido, Rinfreido, Manzon, Salvéla, che contengono ancora le voci che chiamavano a raccolta le mucche: Cerva, la bella, Mul, la forte, Marin, la capa, Bisa, la vécia, Ciaura, la stornella. Lassù c’è una parte di me stesso, un capitolo della mia infanzia, la compagnia dei pastori e pastore, del bolco e del mistro, dei cani e dei muli.

E scesa la notte.

Il ticchettio della pioggia sulle scandole del tetto, i sibili del vento, i richiami degli animali, i canti dei montanari di malga in malga, il fieno come materasso che ti punzecchia la pelle e ti riduce a trottola tutta la notte.

E arriva l’alba e tutto ricomincia. Ma non è più così. Rimangono i colori caldi mattino e sera, pallidi a mezzodì. Non si sono stancate le sentinelle del Peralba, del Cavallino, delTAiàrnola, dei Longiarìn e delle Terze.

E il romanzo delle “Monti” scolpite nel tempo e scritte in questi fogli continua in una perenne evoluzione....

Con rauspicio che i loro montanari continuino ad amarle e ad ammirarle, a non abbandonarle, a non tradirle.


     Don Attilio Menia

 

LA CIVILTÀ DELL'ALPEGGIO

le casère del Comelico
Testo e foto di Achille Carbogno

"Nelle solitarie pietraie, fra le montagne, c’è uno strano mercato: puoi cambiarvi il vortice della vita con una beatitudine senza confini '*

(Milarepa, mistico tibetano dell’ XI0 secolo)

Sopra la vasta fascia bruna dei boschi sovrastanti i terrazzamenti DELLE VALLATE COMELIANE S’APRONO I PASCOLI ALPINI, “l’affascinante mondo dell’alpe”, ultima frontiera nel
RAPPORTO SECOLARE DELL’UOMO ALLEVATORE-PASTORE CON L’ALPEGGIO. Queste estese praterie offrono agli animali una pastura assai sostanziosa, con una ricca gamma di vitamine, proteine, sali e aromi che si concentrano nel latte delle vacche, e da qui in burro e formaggi di incomparabile gusto e sostanza. Su un piano strettamente economico questa peculiare attività stagionale fu certamente una scelta obbligata dei nostri antenati, con lo scopo precipuo di sfruttare l’erba dei pascoli in quota e alimentare così gli animali per un quarto dell’anno, risparmiando prezioso foraggio per il successivo lungo inverno.

L’uso dei pascoli alti (in dialetto ladino la monti, al femminile), tutti di proprietà collettiva, era regolato da norme minuziose contenute nei "laudi”, gli statuti-regolamenti delle antiche comunità; essi contemplavano in linea di massima anche la diversa appetibilità e successione dei pascoli stessi, nonché le priorità riservate agli animali più importanti. Le vacche lattifere avevano naturalmente la precedenza; seguivano manze, vitelle, cavalli ed altro animale minuto. Stava poi al capo-pastore stabilire giorno dopo giorno la successione delle aree di pascolo (prandèri): dalle più vicine alle più lontane, dalle più precoci alle più tardive, dalle più soleggiate alle più ombrose, secondo una rotazione saggia e funzionale. Casàro, mandriani ed aiutanti vari provvedevano alle diversificate incombenze, secondo una gerarchia ed un “mansionario” complessi ed articolati. Il cuore della casèra era il tlei (<celarium - una specie di dispensa fresca a nord, dove venivano conservati i latticini, in attesa della periodica distribuzione). Nel tardo pomeriggio, al rientro, le vacche sostavano sul ciampèi, terreno più o meno erboso attiguo agli stalloni, in un festoso scampanio di sampògni e ciampanéli, prima di essere ricoverate per la mungitura ed il ristoratore riposo notturno.

Il rito della monticazione in Comélico è durato per un millennio e forse più. Fin dal XII secolo sono attestati atti notarili assai complessi e dettagliati relativi all’utilizzo collettivo dei prati alti da parte dei regolieri. Con la rituale transumanza di fine giugno i pastori-allevatori trasferivano gli animali grossi (buoi, vacche, manze, vitelle, cavalli) ed altri animali minuti (capre, pecore, maiali) dai prati bassi (che venivano chiusi per la fienagione con doppio sfalcio estivo) ai prati alti - la mónti. L’attività (muntié) iniziava tradizionalmente in corrispondenza con la festa della Natività di S. Giovanni Battista (24 giugno) e si concludeva (dismuntìé) con la festa di S. Michele (29 settembre).

Il sistema delle casère comeliane occupa generalmente i versanti meridionali ad una quota media di 1800-2000 metri; quasi un anello ideale che lega tra loro i vari pascoli alpini e segna in maniera forte ed incisiva l’industriosa presenza dell'uomo nel tempo passato; infatti l’alpeggio scandì per secoli l’esistenza, mai facile, delle operose genti di montagna. Mi pare opportuno sottolineare qui una peculiare caratteristica dell’antica identità, e cioè che questi uomini “liberi” non erano soggetti a prelievi o pedaggi di tipo feudale, come avveniva nelle vicine valli pusteresi poste sotto l’influenza e il controllo dei conti di Gorizia ad est o dei vescovi di Bressanone più a ovest. Pur limitato alla breve stagione estiva, e in molti casi ormai ridotto o estinto, l’alpeggio è ancor oggi testimoniato da “segni” e strutture che confermano l’antico e consolidato rapporto dell’uomo con il suo ambiente. A chi sappia leggerli rivelano una simbiosi quasi amorosa rivolta alla continua cura dei pascoli e sistemazione dei suoli mediante: spietramento e decespugliamento sistematico - reticolo di tratturi e mulattiere -, pozze artificiali per l’abbeveraggio - resti di grossi covoni di fieno {“mèdi”) -, recinti di sassi per il ricovero notturno degli animali (“mandri”) - stalloni ampi per un riparo migliore e permanente -; infine “casère” (denominazione usata nel Veneto orientale, da casearia-caseus), costruzioni dove si lavorano i prodotti del latte e trovano riparo i pastori. Nel costante divenire del tempo e della parabola socio-economica dell’uomo anche questo sistema è mutato, salvo estemporanee e lodevoli eccezioni. Eppure le antiche strutture casearie rimaste in piedi nel Comélico ancor oggi sono oltre una ventina, in prevalenza posizionate sui versanti solivi della Cresta Carnica.

Iniziamo ora una passeggiata ideale tra i manufatti della vallata del torrente Pàdola, in senso orario e cioè da occidente verso oriente. Di ogni casèra, e sono una decina in questa prima scorribanda, verranno via via forniti alcuni sommari cenni di carattere soprattutto ambientale, ma anche funzionale e storico, tenendo presente che su un piano più stretta-mente escursionistico ed esplorativo esistono già esaustive pubblicazioni. E le illustrazioni che accompagnano questa ricerca, più che indugiare sui manufatti malghivi dalla struttura sostanzialmente simile, consentiranno contemplazioni serene e stupori d’incanto legati alla visione delle pertinenze pascolive, comprese le pendici e i monti sovrastanti.

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CASERA DI CIAMPUBÓN (m 1941)

Eccola la interessante casèra di Ciampubón, come si prospetta dal ciglio dei prati di Vissàda, affacciata su un promontorio prativo che fa onore al suo nome: pascoli ottimi, assai estesi, aperti, gli antichissimi pascoli di Ampléto. In alto si staglia la Croda Nera:

un nome appropriato per queste rocce grige, bruno-violacee, nere, verdastre scisto/filladi-che, antichissime, tra le più vecchie d’Italia (circa 500 milioni d’anni). Ma tutta la cresta di confine del Comélico ha analoghe singolari caratteristiche, esaltate ed evidenziate ancor più dalle intercalazioni più eminenti dei candidi calcari di scogliera: queste nivee rocce devoniane emergono sul crinale, libere dal mantello scistoso dei sottostanti pendii, e si caratterizzano da est con il vistoso marmoreo Peralba, poi con i seghettati ed erosi Longerini contigui alla Pietra Bianca {Péra Biéncia); segue il massiccio fosco Palombino ed infine il bianco “vascello” del Cavallino; in complesso una sequenza di monti più giovani - si fa per dire - di... appena un centinaio di milioni d’anni rispetto all’antichissimo basamento sottostante! Viste da lontano queste cime spiccano per un evidente e visibile candore, ma a distanza più ravvicinata si differenziano in una mutevole tavolozza di bianchi, grigi, rosati, rossi, mandorlati, giallastri.

La casèra, in posizione assai panoramica, benché ristrutturata di recente, sembrava avviata - come tante altre - ad un progressivo abbandono. Ora invece numerose bovine di provenienza friulana ripopolano d’estate queste zone, proseguendo l’antica attività di pascolo. Gli stabili appartengono ai regolieri di Costalissoio. Sarebbe auspicabile, perché no?, un valido utilizzo alternativo, in funzione didattico/naturalistico/ambientale, come suggeriscono la collocazione e l’esposizione ottimali. Vi passa davanti la -strada delle malghe-, un tempo raccordo per mandrie e greggi, ora passeggiata agevole in quota, con visioni eccelse, assai frequentata anche dagli amanti della mountain-bike.

Da questo punto panoramico sarà opportuna una sosta per una ricognizione visiva. Volgendo lo sguardo a meridione ecco la prospettiva offerta: in basso l’estesa Val Montina, appetita da ricchi branchi di cervi, che si allunga verso l’ampio catino di Visdende; sullo sfondo le Terze ed altri monti cadorini in lontananza, magiche suggestioni frastagliate ed azzurrine; appena più a est ecco la complessa elegantissima catena del Rinaldo con i suoi numerosi campanili e torrioni. Ma ecco di fronte, sul lato opposto del largo e profondo impluvio, delinearsi chiaramente la larga mulattiera che porta alla successiva casèra Manzón.

Achille Carbogno

(Foto aggiunte......dal sito di Costalissoio)