2Tim 1,1-8; Sal 96(95); Lc 10,1-9
«Annunciate di giorno in giorno la sua salvezza. In mezzo alle genti narrate la sua gloria, a tutti i popoli dite le sue meraviglie». Con leggiadria, con gentilezza e delicatezza “di giorno in giorno” don Sergio ha annunciato la salvezza del Signore ininterrottamente. Negli ultimi tempi appariva con nobiltà e signorilità seduto su un trono di mitezza. Appariva così. Non c’era in lui nessun fremito di d’impazienza o di fastidio. Irradiava un senso di serenità. Sapeva pronunciare una sola parola, la più grande, la più speranzosa, la più liberante: «Come stai, don Sergio?» e lui rispondeva, senza esitare: «Bene». La trama della sua vita è tutta in questa parola.
Oggi siamo qui nei luoghi dove don Sergio ha condiviso il ministero con don Virginio prima di giungere all’ultima sua fraternità, quella vissuta con i confratelli di Casa Kolbe. Questo esile uomo è sempre stato un “fratello” ovunque ha svolto il suo ministero. La sua è stata una docile fraternità, alimentata nel calore del focolare con altri amici preti, sperimentando l’arte dell’unità con tanti altri fratelli e sorelle nella fede. Potremmo dedicargli parole di ammirazione e di gratitudine assumendo quanto dice l’apostolo Paolo a Timoteo, chiamato “figlio carissimo”: «Sento la nostalgia di rivederti per essere pieno di gioia. Mi ricordo, infatti, della tua schietta fede, che ebbero anche tua nonna […] e tua madre […] e che ora, ne sono certo, è anche in te».
Inoltre questa testimonianza di Paolo, a riguardo di Timoteo che egli ha sostenuto e accompagnato fino a renderlo partecipe del suo ministero apostolico, ci infonde un senso di grande fiducia perché ci mostra che la chiamata di Dio non è episodica, non è frammentata, ma è capace di creare legami di affetto, di intessere relazioni spirituali profonde, di aprire spazi di incontro. La vocazione che sgorga dall’amore di Dio non fa di ciascuno di noi un assoluto, un individuo con una sua esclusiva verità. La sua chiamata è sempre vocazione di comunione e ci sollecita a riconoscere nell’altro un “bene” ulteriore a cui anche affidare se stessi. Don Sergio ha fatto spazio nella sua vita a questa alterità, ha riconosciuto sempre il bene degli altri di cui si è fidato. Oggi noi tutti di questa sua testimonianza abbiamo tanto e tanto bisogno. Penso sia questa la sapienza di vita che don Sergio ha profuso con umiltà e discrezione.
Trapiantato dalla pianura all’alta montagna, per far fronte alle necessità della sua salute, don Sergio è diventato un dono squisito nelle comunità del Cadore e del Comelico. Lo si vede in un video ad accompagnare in una delle sue passeggiate comeliane il papa Giovanni Paolo II: con snellezza e premura faceva sì che la gente potesse stringere la mano al papa. È un’immagine bella del suo ministero pastorale: avvicinare le persone, servire l’unità che ha la sua radice e la sua fonte in Dio. Gesù nel vangelo raccomanda ai discepoli: «Andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali […]. In qualunque casa entriate, prima dite. “Pace a questa casa!” […]. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”». L’immagine dell’agnello ci colpisce: don Sergio che ha vissuto con un di più di mansuetudine, ci appare come un agnellino in mezzo al gregge…
Nel cuore della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani don Sergio ha portato a compimento la sua missione nell’unire cielo e terra, nel ricomporre i figli e le figlie di Dio come fratelli e sorelle, nel portare alle comunità a cui è stato affidato l’annuncio che Gesù aveva consegnato ai settantadue discepoli: portare la pace, guarire i cuori lacerati e, soprattutto, offrire con la propria vita la parola che salva: «Dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”».
In don Sergio abbiamo assaporato questa vicinanza.