Tratto dal libro "GUERRA E RESISTENZA IN CADORE" di Walter Musizza e Giovanni De Donà
(Capitolo "La formazione del distaccamento "Cadore" a Vedorcia)
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...siamo nel 1944 - estratto che riguarda il nostro Comelico...
Il CLN (Comitato Liberazione Nazionale) di S. Stefano era formato nei primi tempi da 5 membri (Ciani Speri, Guido Chiandin, Dino Buzzo, Giuseppe Buzzo Saler e Attilio De Candido), che si tenevano in contatto con "Garbin" (Alessandro Gallo-giovane insegnante a Pieve di cadore), quale rappresentante del CLN provinciale. Il Comitato si riuniva spesso la sera in alcune case private per l'ascolto di Radio Londra, al fine di valutare le varie situazioni e decidere il da farsi.
Nel mese di aprile esso venne contattato da esponenti della resistenza carnica e fu fissato un incontro presso l'albergo "Gemelli" di Campolongo, al quale parteciparono 4 capi partigiani della Carnia. Costoro prospettarono senza indugio una sorta di "invasione amichevole" del Comelico da parte di tre reparti partigiani ben armati, coadiuvati da un emissario rappresentante del Maresciallo Tito quale osservatore. Fu una serata snervante, litigiosa e per molti versi inconcludente. Ma i comelicesi capirono come la situazione si fosse fatta davvero minacciosa e come rischiassero di trovarsi presto schiacciati tra tedeschi e filotitini. Allora presero tempo, fissando un nuovo incontro a Cima Confin, presso Forcella Lavardet, promettendo che in quell'occasione avrebbero dato una risposta definitiva.
Fu proprio in tale lasso di tempo, tra aprile e maggio, che il CLN andò ingrossandosi, convincendo numerosi giovani, ed anche donne, a collaborare per il bene comune. Siamo convinti che tale "reattività" da parte dei locali, e più in generale, dell'intero movimento cadorino, fu facilitata, se non indotta, dalla prospettata e temuta "invasione" dei carnici, che già si erano fatti vedere più volte nei paesi e che ai primi di maggio arrivarono a prelevare il reparto della Lujtwaffe di S. Stefano. L'azione fu opera di partigiani carnici delle Brigate "Friuli" e "Osoppo", che nei giorni precedenti avevano operato diversi sconfinamenti in Comelico, alienandosi le simpatie della popolazione.
Il mattino successivo a questo fatto consistenti forze tedesche bloccarono il paese, fermando i pochi paesani trovati per le strade e radunandoli sotto l'atrio della chiesa, ma alla fine si potè persuadere i comandanti che la cattura dei loro soldati era stata operata da partigiani di fuori, cosicché in quell'occasione non fu eseguito alcun arresto.
I carnici si vantavano sempre di essere bene armati, anche grazie a diverso materiale fatto giungere dagli alleati, ed inoltre possedevano automezzi e buone dotazioni, sia di viveri che di munizioni. Il CLN di S. Stefano, pur conscio della contingente impreparazione e della mancanza di mezzi, ritenne necessario "bluffare" ed esprimere un netto rifiuto ad ogni intrusione, amica o nemica che fosse, aggiungendo che 100 giovani ben armati erano pronti ad opporsi a simili ingerenze. Un "nobile personaggio", Tullio Pellizzaroli, consegnò a Dino Buzzo una missiva segreta, non apribile, da recapitare con la massima urgenza ad un certo signor Biasutti di Ravascletto e dopo una settimana di trattative fu firmato a "Cima Confin" l'accordo in duplice copia, con la reciproca promessa di non superare i confini operativi stabiliti.
Se "Garbin" dunque s'augurava a tempi brevi una salutare ed emancipata reazione in tanti settori della popolazione cadorina, i pericoli prospettati ed agitati sulle soglie del Passo della Mauria e di Casera Razzo non possono che aver favorito la sua propaganda e il suo impegno, facilitando ed accelerando la mobilitazione delle disponibili forze locali. (nota 8)
Nota (8)
La testimonianza su questo episodio poco conosciuto è di Aldo Baldissarutti ("Baldo") di S. Stefano. Ricordiamo inoltre per inciso che T. Pellizzaroli si batté sempre in prima persona per stornare sia le azioni dei carnici, sia le rappresaglie tedesche. Il 2 maggio 1945 fu nominato Capo della Delegazione Provinciale e guidò anche il Comune di S.Stefano con lungimiranza ed onestà.
Pillole di storia n.2
Tratto dal libro "GUERRA E RESISTENZA IN CADORE" di Walter Musizza e Giovanni De Donà
(Capitolo "Le prime azioni del distaccamento "Cadore")
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...siamo nel 1944 - estratto che riguarda il nostro Comelico...
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A seguito della chiamata di leva, i Podestà di Belluno, Feltre, Agordo, Auronzo, S.Stefano, Pieve di Cadore, nonché altri dell'Alpago e della Sinistra Piave, si riunirono in Prefettura a Belluno il 6 giugno, alla presenza del Prefetto Commissario Silvetti, per esternare tutta la loro preoccupazione, in quanto i giovani nella stragrande maggioranza dimostravano ovunque di preferire la via della montagna. I Podestà dichiararono dunque di far presente ciò alle autorità germaniche per "debito di coscienza, per sentimento del dovere ed a scanso di responsabilità".3
3 Vera anima di siffatta iniziativa può essere considerato Giovanni Fontana, allora Presidente della Magnifica Comunità del Cadore. Egli dice testualmente: «La situazione si aggravava, avemmo delle riunioni presso il Municipio di Belluno dei Podestà dei principali Comuni della Provincia. Se ben ricordo, in quella occasione eravamo in undici. Del Cadore erano presenti il Podestà di Pieve Nelso Coletti, il Podestà di Auronzo aw. Giovanni Larese e lo scrivente» (G. Fontana, Notizie storiche del Comelico, cit., pp. 330-31).
La moglie Angelina Bombassei, da parte sua, così ricorda nel suo diario: «Reggeva allora anche la presidenza della Magnifica Comunità e si assumeva gli incarichi più gravosi, poiché nessuno si sentiva capace, o meglio aveva la volontà ed il coraggio di esporsi. Fu lui ad escogitare il mezzo per scongiurare il pericolo di una leva della gioventù da parte dei tedeschi, esortando ed impegnando i Podestà della Provincia, fra cui alcuni paurosi, a scrivere quella memorabile lettera al Comando tedesco».
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Pillole di storia n.3
Tratto dal libro "GUERRA E RESISTENZA IN CADORE" di Walter Musizza e Giovanni De Donà
(Capitolo "Le prime azioni del distaccamento "Cadore")
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… il 26 giugno (1944), uomini dell’ “Oberdan* attaccarono presso Forcella Dignas, un piccolo presidio del "SOD", situato oltre confine nei pressi dell'attuale rifugio "Porze", verso la valle del Gail, e formato da una decina di militi piuttosto anziani. L'azione, alla quale parteciparono tra gli altri Aldo Pellizzaroli, Ivo Bergagnin, Attilio De Candido, Dino Buzzo, G. Battista De Candido e Luigi Solagna, portò alla cattura di armi e munizioni. Il Maresciallo comandante riuscì a fuggire correndo a precipizio lungo i ripidi pendii, un soldato restò ferito ed un altro fu fatto prigioniero. Al di là dei positivi esiti per il morale di molti uomini, chiamati alla prima esperienza armata, l'attacco fu gratificato dal sequestro di un mulo, che fu prontamente "adottato" dai partigiani e ribattezzato "Hitler": l'animale risultò oltremodo utile nei mesi seguenti e restò in forza alla Brigata fino allo scioglimento della stessa. (27)
(27)
Test, di Benedetto De Candido "Pianta" e di Luigi Solagna "Fischio" del 27 luglio 1996. Quest'ultimo, nato nel 1923, era tornato a casa a piedi dopo l'8
settembre da Riva di Trento, assieme ad altri compagni. Nel giugno '44 fu contattato in piazza a S.Stefano da alcuni amici già militanti partigiani e convinto ad unirsi a loro. Si portò così prima a "Najaredo", in comune di Costa, sopra "Sega Digon", quindi nelle baite di "Melin" ed infine alla vecchia casera di "Londo": erano in tutto una ventina di uomini agli ordini di Ivo Bergagnin "Bosco" di S. Stefano. La "Relazione ufficiale" della "Calvi" (cit., punto VII) recita testualmente: "Il 26 giugno 1944 un nostro reparto attaccava sulle montagne, al confine austriaco, un posto di vedetta tedesco che si disperdeva, lasciandoci due muli, armi e viveri". Il mulo "Hitler" sarebbe stato poi causa indiretta dell'incendio della malga di "Piandesire" nell'ottobre '44.
Pillole di storia n.4
Tratto dal libro "GUERRA E RESISTENZA IN CADORE" di Walter Musizza e Giovanni De Donà
(Capitolo "Le prime azioni del distaccamento "Cadore")
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...siamo nel 1944 - estratto che riguarda il nostro Comelico...
"I primi rapporti con la resistenza carnica"
Una prima avvisaglia dei difficili rapporti tra partigiani carnici e
cadorini si era avuta già nella primavera del '44, allorché presso l'albergo
"Gemelli" di Campolongo s'era svolto un infuocato incontro, durante il quale
4 capi carnici avevano proposto, o comunque prospettato, un'invasione del
Comelico da parte di tre reparti carnici ben armati, che sarebbero stati
coadiuvati da un emissario rappresentante del Maresciallo Tito, in veste di
osservatore. Dopo aver preso tempo, i rappresentanti del CLN di S. Stefano
riuscirono a stornare tale non gradita intromissione grazie
all'incoraggiante numero di nuovi arruolamenti avutisi nel periodo
giugno-agosto e alla dichiarata, ed invero ad arte gonfiata, disponibilità
di uomini e mezzi a breve termine su un territorio considerato proprio ed
autosufficiente. A sancire tale "indipendenza" comelicese venne poi in
agosto un accordo, firmato in duplice copia a "Cima Confin", colla reciproca
promessa di non oltrepassare i confini stabiliti e di rispettare quindi le
diverse zone d'intervento e d'influenza. Questo però non stornò del tutto il
problema della fatale sovrapposizione
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Alla fine di maggio il reparto della Luftwaffe stanziato a S. Stetano fu attaccato di notte e fatto prigioniero da partigiani carnici delle Brigate "Friuli" ed "Osoppo". Il mattino successivo arrivarono in paese consistenti forze tedesche, che fermarono i pochi paesani trovati per le strade, radunandoli poi sotto l'atrio della chiesa. Quando però già si temeva il peggio, essi si convinsero in qualche modo che l'azione era da attribuirsi a gente "foresta", per cui non arrestarono nessuno e se ne andarono con gran sollievo di tutta la popolazione.
Nei primi giorni di giugno il Battaglione garibaldino stanziato a Pradibosco e comandato da "Aso" aveva progettato un'incursione a Campolongo per disarmare le Stazioni Carabinieri e Finanza lì presenti e venne all'uopo studiato un piano d'azione che teneva conto della presenza del grosso presidio di truppe tedesche nella vicina S. Stefano. Il giorno precedente la progettata azione Osvaldo Fabian "Elio" venne inviato con un altro compagno sul posto per perlustrare la zona e sincerarsi della situazione. I due trovarono il centro del paese pieno di tedeschi, circa 200, appostati in attesa con le armi in pugno: sotto una pioggia dirotta e pedalando freneticamente in salita riuscirono ad informare "Aso" del pericolo, quando il reparto stava già accingendosi a partire. L'azione venne dunque rimandata e si seppe poi che la trappola era stata preparata da un informatore dei partigiani, che, convocato e processato, finì "passato per le armi dalla inflessibile giustizia partigiana".
Il 16 giugno un distaccamento del Btg. "Carnia", al comando di Mansueto Nassivera "Leone", di Forni di Sotto, attaccò una pattuglia tedesca che stava scendendo da Sappada, facendo un morto, due feriti e quattro prigionieri.
Il 30 giugno poi un distaccamento del Btg "Carnia", comandato da "Aso" ed in asserito collegamento con partigiani locali, attaccò di sorpresa il presidio misto di tedeschi e carabinieri a S. Stefano di Cadore, facendo prigionieri cinque tedeschi e cinque italiani. Il bottino fu di 20 mauser, tre mitragliatori con abbondanti munizioni, materiale ed equipaggiamento vario.
Pillole di storia n.5
Tratto dal libro "GUERRA E RESISTENZA IN CADORE" di Walter Musizza e Giovanni De Donà
(Capitolo "Gli avvenimenti dell'agosto 1944 e l'arrivo del capitano Hall")
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...siamo nel 1944 - estratto che riguarda il nostro Comelico...
Capitano R. S. G. Hall, paracadutato in Carnia il 1° del mese, o addirittura prima, a fine luglio. La vicenda dell'ufficiale americano è davvero singolare e riempie ancor oggi di meraviglia per i suoi drammatici risvolti e soprattutto per l’ardimento che l’ha sottesa dal principio alla fine e che non resta certo inficiato dalla personalità "conservatrice" del personaggio. Brillante ufficiale del Genio, laureatosi ad Harvard ed ammiratore già da tempo delle nostre Dolomiti, era stato aggregato alla Missione Mercury-Eagle ed il 1° agosto era stato trasportato in aereo da Brindisi fino in Carnia ed ivi paracadutato. Il suo arrivo si inquadra nella strategia alleata di quei mesi, tesa ad influenzare in vari modi l’attività partigiana sulle Alpi con l'invio sul posto di ardimentosi ufficiali, con il compito di programmare aviolanci di armi e rifornimenti, di fornire precise informazioni sulle vie di comunicazione esistenti e di preparare atti di sabotaggio a strade ed infrastrutture.
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Dopo aver stazionato nella zona di Preone, Ampezzo, Ovasta e Comeglians, operando ricognizioni sulla Creta Forata ed organizzando sabotaggi a diversi ponti ferroviari, Hall ebbe il primo contatto con un responsabile del Cadore il giorno 11 agosto: con lui probabilmente parlò di un "lavoro" a Sesto di Pusteria, di un'altra operazione alle installazioni di Ladro e di prossimi aviolanci alleati in zona. Secondo G. Gallo, Hall, conferitosi i gradi di Capitano già il 12 agosto, anche se la nomina ufficiale arrivò solo il 7 dicembre, pretendeva di costituire una missione autonoma, per cui si sarebbe scontrato duramente con il Magg. Smith, che praticamente lo avrebbe invitato ad andarsene dalla Carnia. Quello stesso 12 agosto il partigiano Giovanni Osvaldo Ciani "Giaco", di S. Stefano, con la scorta di Enzo Comis, lo accompagnò in bicicletta da Ovasta a Forcella Lavardet, dove poi venne a prelevarlo con un sidecar Dino Buzzo "Norman", del G.A.P. di S. Stefano, per portarlo in Val Visdende con la scorta di Aldo Baldissarutti "Baldo" di S. Stefano.
Il giorno 14 agosto organizzava con Giacomo Zambelli Peschei "Barbin" ("Jake") di Candide un attentato al ponte del Pissandolo, sulla strada per il Passo di Monte Croce Comelico, e subito dopo si spostava in un fienile della Val Visdende, attraversando Costa e Monte Zovo, accompagnatovi da "Jake", e sistemandosi quindi in un sottotetto aperto di una fattoria, sotto la scorta di due giovani, F. e G., che avrebbero persuaso con 200 lire e qualche minaccia il proprietario della casa a star zitto e a non farsi vedere lì.
In un primo momento Hall preferì allontanarsi dalla casa con tutta la sua roba e dormire nei boschi, ma poi, anche per la pioggia insistente, decise di ritornare alla base, chiedendo espressamente a
Ivo Bergamin "Bosco", Comandante di Compagnia del Battaglione Oberdan, sempre attraverso i due giovani, una vera guardia del corpo di soldati e non "ragazzi che pensano si tratti di una via di mezzo fra un picnic e una gita di caccia".
Salì sul M. Schiaron ed operò varie ricognizioni sul terreno per preparare gli attesi aviolanci e per studiare attentati ad un ponte di Sappada e a non ben identificati impianti nella zona di Landro.
La baita della Val Visdende che lo ospitava si trovava sopra "Prà della Fratta", a "Prà Schiaròn", ed era proprietà di gente di Costalta: qui, per tutto il mese di agosto, con l'aiuto dei partigiani, tra cui Cesare De Mattia, Mario De Candido, Vasco Buzzo Salèr "Zambo” e Luigi Solagna "Fischio", Hall allestì e tenne pronto un campo di atterraggio per un aviolancio alleato, atteso proprio a "Pramarino”.
Pillole di storia n.6
Tratto dal libro "GUERRA E RESISTENZA IN CADORE" di Walter Musizza e Giovanni De Donà
(Capitolo "Gli avvenimenti dell'agosto 1944 e l'arrivo del capitano Hall")
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...siamo nel 1944 - estratto che riguarda il nostro Comelico...
Capitano R. S. G. Hall, paracadutato in Carnia ...
.....atterraggio per un aviolancio alleato, atteso proprio a "Pramarino”.
Ricordo che a Candide, presso la casa dell'aw. Pietro Gera, nell'estate del '44 c'era un ascolto continuo e clandestino, notte e giorno, di "Radio Londra" e "Radio Italia Libera". Anche i figli dell'avvocato collaboravano con la Resistenza ed un giorno venne a S. Stefano il più vecchio di questi, Francesco, per abboccarsi con mio fratello maggiore, Alfonso. Disse che dovevamo recarci in Val Visdende, a "Prà della Fratta", e solo strada facendo seppi che andavamo a trovare il Capitano Hall, già noto al Gera. Saranno stati i primi giorni di agosto, o prima, non ricordo. Dopo un lungo colloquio, l'americano mi annunciò che dovevo rimanere con lui. Io avevo 17 anni e parlavo abbastanza bene l'inglese e il francese, ma non ne volevo sapere di restare lì. Mi convinsero però a fermarmi per un giorno o due ed ebbi modo di conoscere bene quell'uomo, che si trovava da noi in attesa di un aviolancio di rifornimenti alleati da effettuarsi a "Pramarino". Doveva inoltre organizzare e coadiuvare le formazioni partigiane cadorine, in particolare il Battaglione "Oberdan", che era dislocato in una malga più in alto, a circa due ore di cammino dai "Piani di Visdende" e che comprendeva circa 80 uomini, tra i quali pure mio fratello Alfonso.
Dai colloqui avuti con lui venni a sapere che egli era lì in virtù di una sua radicata convinzione, certamente condivisa dai suoi comandi superiori, che la guerra si sarebbe fermata sui vecchi confini, tanto contesi nella Grande Guerra, e che fosse perciò necessario organizzare la lotta in
Cadore, ancora assai lontano dalla struttura già attivata in Carnia, dove i rifornimenti alleati erano già funzionanti ed efficaci. Il lancio in Val Visdende era appunto atteso con grande ansia ed eccitazione proprio per ravvivare gli sforzi cadorini e ricordo che il messaggio atteso in codice era "Il mulo ha quattro zampe".
Dopo tre giorni si unirono a noi due partigiani, Cesare De Mattia e Mario De Candido, ed io facevo da interprete. Essi facevano la guardia all'esterno e noi potevamo dormire tranquilli all'interno del fienile, con una coperta sul fieno. Eravamo puntualmente riforniti di viveri, sia dagli uomini dell'Oberdan", sempre curiosi ed attenti ai giudizi del Capitano, sia dall'aw. Gera, che veniva qui personalmente da Candide. Il lancio però non avveniva mai, ma Hall mi diceva che esso poteva venir effettuato anche senza preavviso, per cui era necessario tener sempre pronto il campo di lancio con delle cataste disposte a "L", mentre alcuni partigiani deir'Oberdan", appostati sui monti circostanti, dovevano star pronti a scendere e a dar man forte.
Hall ci faceva così preparare la legna per i falò sul pianoro, di circa metri 200 x 200, in leggera salita tra "Pramarino" e "Prà della Fratta". Una sera, improvvisamente, sentimmo il rumore di due aerei ed il capitano ci gridò "Leight/". Accendemmo immediatamente i fuochi, ma gli aerei passarono senza lanciare alcunché. Ci urlò allora di spegnere subito tutto, perché poteva trattarsi di ricognitori tedeschi e il giorno seguente era deciso a mutare la sede. Avrei voluto accompagnarlo, stare ancora con lui, ma volle a tutti i costi che ritornassi a casa. Io gli ho obbedito e venni a sapere in seguito che il lancio atteso in Val Visdende fu poi fatto in Carnia. Ricordo perfettamente quella volta che dalla vicina Carnia giunsero in Val Visdende, accompagnati dai partigiani, due ufficiali inglesi a trovare Hall. Era di sera e rimasero per parecchio tempo insieme a parlare: portavano al Capitano la posta personale (mi ricorderò sempre questo particolare!), tanto che lui mi fece poi vedere una cartolina di auguri per il suo compleanno (12 agosto), inviatagli da suo fratello che combatteva nel Pacifico: nel giro di 6-7 giorni era arrivata in Val Visdende! Quando ci lasciammo ci salutammo cordialmente ed io gli diedi il mio indirizzo, naturalmente solo a voce, perché Hall non teneva niente per iscritto: "Se domani mi prendono - diceva - io non devo saper niente". Dopo un mese circa, forse in ottobre, mi mandò ancora a chiamare e lo trovai a Campolongo, solo in una casa del centro. Qui tirò subito fuori da una grossa valigia molte carte geografiche e mi incaricò d'indagare le montagne circostanti tra il Comelico e l'Austria, onde verificare se i vecchi sentieri e mulattiere della Grande Guerra riportati sulle carte fossero ancora esistenti e in che grado percorribili da contingenti armati. Mi ribadì il suo pensiero che la guerra si sarebbe fermata sui vecchi confini e tirò fuori pure del denaro e me lo diede affinché contattassi degli uomini fidati per questo lavoro ritenuto da lui oltremodo utile in prospettiva futura. In quell'occasione potei constatare come la valigia fosse piena zeppa di denaro. Mi fornì pure degli schemi da compilare, segnalando su di esse tutte le variazioni intervenute sulle strade e sui sentieri. Io con Hall sarò stato un mesetto. Egli era ingegnere ed avrà avuto 35-38 anni. Mi fece una grande impressione: mi pareva molto esperto, quadrato, equilibrato, un uomo che non rideva mai, con un continuo, maniacale timore delle spie e dei delatori, tanto che non si allontanava mai dalla baita per più di dieci minuti. Doveva essere uscito da una scuola per agenti segreti molto seria, capace di forgiarlo a dovere e di renderlo tra l'altro attento a non coinvolgere alcun estraneo nella sua vicenda. Portava al fianco una pistola vistosa, tipo "Far West", e girava sempre in divisa perché diceva che in tal modo, se lo avessero preso, avrebbero dovuto adottare nei suoi confronti le clausole della "Convenzione di Ginevra". Io feci il lavoro assegnatomi, ma poi di Hall non seppi più niente. Nel mese di ottobre ripresi gli studi al Liceo di Vittorio Veneto e alla fine della guerra venni a sapere che i familiari di Hall erano stati a Candide per parlare con l'aw. Gera.
Pillole di storia n.7
Tratto dal libro "GUERRA E RESISTENZA IN CADORE" di Walter Musizza e Giovanni De Donà
(Capitolo "Gli avvenimenti dell'agosto 1944 e l'arrivo del capitano Hall")
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...siamo nel 1944 - estratto che riguarda il nostro Comelico...
Capitano R. S. G. Hall, paracadutato in Carnia ...
.....venni a sapere che i familiari di Hall erano stati a Candide per parlare con l'aw. Gera.
Ma anche il fratello maggiore di Sergio, Alfonso, ebbe la ventura di stare a lungo accanto al Capitano, del quale così racconta:
Un giorno venni convocato da Ivo Bergagnin, il quale mi mise al corrente che in Val Visdende era arrivato un... americano vero. L'effetto che tale annuncio ebbe sul nostro gruppo fu prima d'incredulità e poi di morbosa curiosità: dovevamo verificare se veramente esistevano i marziani! Eravamo ormai abituati a vivere isolatamente fra noi, non avevamo che rare notizie del mondo che ci circondava, dovevamo diffidare di tutti e di tutto perché il pericolo, la delazione, era dietro ad ogni albero e questo mi viene a dire che era arrivato quassù, fra queste valli sperdute e dimenticate, addirittura un americano. Fui accompagnato a fondo valle, credo in località "Pramarino". Qui, in mezzo ad un boschetto fitto di abeti, vicino ad un casotto di legno, fui presentato al... marziano. C'era quel giorno un po' di gente borghese che conoscevo di vista, più qualche partigiano della Carnia. Dopo la presentazione mi dissero che dovevo stare con "quello" per alcuni giorni, aiutarlo nelle sue necessità, riferire le sue richieste e quello che faceva, che era importante perché ci avrebbe fatto arrivare, finalmente, viveri, equipaggiamenti, armi. Ero stato scelto come suo attendente perché sapevo un po' di francese, ero studiato, ero insomma l'uomo giusto per quella mansione. 1 due, tre giorni si prolungarono a quasi due mesi, vissuti sempre fra noi due, dividendo cibo, noia, paure, speranze, attività di sopravvivenza e riposi sul fieno pieno di pidocchi. Era un uomo un po' brizzolato, tarchiato, forte fisicamente e moralmente: una roccia. Di carattere era riservato e schivo. Solo raramente si
lasciava andare a qualche confidenza ma per lo più restava sul generico e giustificava questa sua ritrosia con il fatto che la sua era una missione segreta e gravida di responsabilità. Era anche dotato di una memoria prodigiosa ed era sempre pronto a cogliere ogni particolare che lo interessava, mentre trascurava regolarmente ogni aspetto di bassa fureria; per esempio l'approvvigionamento che per noi era un problema quotidiano. Però si accontentava di poco e non si lamentava mai. Avevamo riposto in lui molte speranze perché le nostre condizioni di vita erano giunte al limite, avevamo bisogno di tutto, abbigliamento, cibo, armamento. Ci aveva assicurato che avrebbe provveduto a farci arrivare aiuti a mezzo di lanci paracadutati. Ricordo che ogni sera, quando il cielo era stellato e limpido, usciva dalla baracca, fiutava l'aria come un cane da caccia e diceva: wCette soire possibile lancio". Ma poi non arrivava un bel niente, con nostra grande delusione. Era sempre in divisa con i gradi di Capitano, me lo disse lui, perché, allora, quelle placchette a me non dicevano nulla. Comunicava con i suoi con una radio da campo, parlando un inglese stretto di cui non capivo una parola. Una volta venne a visitarci un ufficiale inglese, anche lui piombato lì all'improvviso e giunto fin lassù attraverso le montagne di Sappada, accompagnato da partigiani della Carnia. Restò con noi un giorno o due, era più affabile e ciarliero del mio ospite, forse anche perché parlava un discreto italiano. A parte i lanci, non ho mai capito i veri scopi della sua missione. Non mi chiese mai notizie sulla nostra consistenza bellica, né sulla nostra organizzazione, lo gli ripetevo che, con l'inverno incipiente, rimanere lassù non era uno scherzo, che le nostre risorse non erano tali da consentirci di poter svernare fra i boschi, né era possibile tornare alle nostre case per l'inverno. Lui annotava tutto e ci faceva ben sperare. Passava le giornate studiando le carte geografiche della zona, ne aveva parecchie, e conosceva benissimo le strade, i sentieri i rifugi, i paesi. Andavamo spesso per boschi e raccoglievamo tutto quello che si poteva poi mangiare. Quando pioveva e non aveva altre occupazioni, uccideva il tempo imparando a memoria i nomi che aveva segnato sulle sue carte geografiche con una matita rossa e intagliando il legno. Ricordo che si costruì una pipa di legno e, anche se non la utilizzò mai, ci teneva moltissimo e la custodiva come una reliquia. Ormai avevamo raggiunto una buona intesa, mi dimostrava affetto e mi diceva spesso che a guerra finita avrebbe voluto portarmi in America con lui. Avevo apprezzato le sue doti morali, la sua fermezza d'animo e in più occasioni della mia vita lo presi ad esempio e ciò mi fu di conforto e di guida.7
Del soggiorno di Hall in Coinelico conserva un vivido ricordo anche Benedetto De Candido "Pianta", che gli fu accanto per molti giorni, fungendo da sua staffetta e da sua guardia. Egli ricorda come l'americano inizialmente dormisse da solo, fuori dal fienile, forse perché non si fidava del tutto o non nutriva troppa simpatia per quei partigiani dal fazzoletto rosso al collo. Successivamente però fece amicizia coi giovani comelicesi, sia quelli che stavano sempre con lui, sia con quelli che, quasi sempre all'imbrunire, salivano in visita, di lavoro o di cortesia.
Nel suo Diario, alla data del 25 agosto, il nostro americano segnala l'arrivo di Sambo (Vasco Buzzo Saler) e Fischio (Luigi Solagna) quali sue nuove guardie del corpo, mentre Sergio Kratter, diciassettenne, rimane il fidato portaordini, che cura l'inoltro dei messaggi destinati al Maggiore Suhling, nuovo responsabile, proprio dall'agosto '44, dell'attività delle missioni OSS.
Hall ebbe così modo di conferire più volte con "Garbin", "Barbin" e "Teli" e in due occasioni, in settembre, si portò personalmente a Costa per interrogare un Tenente tedesco catturato a Presenaio. Pur dimostrando una grande intesa con "Teli", divenuto presto il suo uomo fidato, e collaborando con lui alla stesura di molti piani d'attacco, l'americano non partecipò mai direttamente ad un'azione e forse anche per questo, oltre che per il suo rifiuto di smettere la divisa e vestirsi come gli altri in "borghese", finì col diventare antipatico a qualcuno, che osservava come egli in tal modo volesse rischiare poco e distinguersi in ogni caso dai comuni "banditi".
Pillole di storia n.8
Tratto dal libro "GUERRA E RESISTENZA IN CADORE" di Walter Musizza e Giovanni De Donà
(Capitolo "Gli avvenimenti dell'agosto 1944 e l'arrivo del capitano Hall")
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...siamo nel 1944 - estratto che riguarda il nostro Comelico...
..... una relazione dettagliata sui fatti e che gli abusi consistevano in
"azioni personali" condotte a Lorenzago e dintorni. problema della disciplina
interna si aggiungeva quello, ormai noto e sofferto, dei rapporti coi carnici,
ai quali venivano imputati in Comelico Superiore notevoli soprusi, che finivano
col gettare discredito su tutta la "Calvi", ritenuta spesso responsabile, almeno
indiretta, di tali spiacevoli episodi. A S. Stefano e nei paesi limitrofi si
erano verificati infatti nel mese di agosto numerosi furti ed atti
delinquenziali, la cui paternità esatta spesso non era possibile determinare,
proprio perché in quella zona, così povera ed emarginata, in quel periodo erano
sorte diverse bande costituite da persone talvolta irresponsabili, simpatizzanti
o per i garibaldini o per gli osovani.
La "Calvi" dovette perciò opporsi a tali requisizioni da parte dei carnici, che
non sfruttavano solo le magre risorse del Comelico, ma scendevano perfino in
Centro Cadore attraverso Forcella Scodavacca, arrivando a Domegge, Lozzo e
Vallesella, dove disponevano perfino di un aggancio presso un certo "Masi".
Poiché tale disinvoltura finiva col mettere in cattiva luce l'intero movimento
partigiano, "Calvi" compresa, il Podestà di S. Stefano G. Fontana scriveva al
Commissario Supremo della Provincia di Belluno, chiedendo di poter costituire,
in mancanza di un'autorità in grado di proteggere i cittadini, una "guardia
comunale composta da cittadini volontari ed integerrimi per pattugliare il
paese". Il Commissario Supremo si dichiarò peraltro contrario a tutto ciò
«perché i pattuglianti si sarebbero solo esposti ad essere aggrediti e soppressi
dai partigiani", rammaricandosi che la gioventù "non si fosse presentata con più
sollecitudine ed animazione al C.S.B., perché appunto questa istituzione era
destinata nei singoli paesi a prestare servizio di ordine". Fu necessario
quindi, su richiesta dei valligiani, richiedere l'intervento diretto di "Garbin",
per porre fine a questi atti ritenuti da molti autentico banditismo. Racconta G.
Gallo:
Infatti la popolazione dell'Alto Comelico si lagnava perché una banda di giovani sedicenti partigiani faceva scorrerie nella valle del Piave e del Rio Padola, in Val Visdende e nelle contrade di Costa, Costalta e Costalissoio. "Ne va di mezzo il nostro buon nome - disse Garbin - la dignità, la credibilità della brigata e della nostra lotta. Andate, rimettete le cose a posto con la massima durezza. Non tolleriamo banditi, neanche se si spacciano per "Montes" o per il "Passator cortese": l'unica autorità legittima del Cadore siamo noi." Veramente il nostro governo era a mezzadria coi tedeschi. Loro tenevano il fondovalle e i paesi più grossi da Auronzo a Cortina, noi si comandava nei paesi di mezza costa, da Vinigo a Cibiana, Grea e Rizzios... E, naturalmente, in tutte le montagne. Partimmo dal Tranego, sopra Pozzale, per l'ingrato servizio di polizia e arrivammo, dopo una lunga marcia, al passo di S. Antonio, detto "del Zovo", nei pressi di Danta. (...) E i banditi li catturammo il giorno dopo di sorpresa, all'alba, con una vera azione di guerra. Il maltolto fu restituito alla popolazione. Facemmo ai ragazzi un predicozzo morale, politico e patriottico. Non capirono quasi nulla, tranne che, o venivano con noi, sotto la ferrea disciplina partigiana, o li avremmo fucilati. Fecero la scelta più conveniente, divennero col tempo bravi combattenti.
Pillole di storia n.9
Tratto dal libro "GUERRA E RESISTENZA IN CADORE" di Walter Musizza e Giovanni De Donà
(Capitolo "Gli avvenimenti dell'agosto 1944 e l'arrivo del capitano Hall")
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Ma un grosso problema, che veniva ad aggiungersi a quello della lotta militare contro i tedeschi, era costituito dalla necessità di assicurare i congrui e vitali rifornimenti di viveri alla popolazione civile, compito questo che gravava spesso sulle singole, coraggiose e spesso estemporanee iniziative delle autorità locali, capaci di annodare rapporti con città e paesi anche molto lontani e di superare gli stessi ostacoli frapposti talvolta dalle formazioni partigiane. Riuscire a portare carichi di cereali dalla pianura fino in Cadore fu spesso un'operazione rischiosa, oltre che costosa, i cui presupposti erano proprio quell'agibilità e quella sicurezza sulle strade che l'aviazione alleata e la lotta partigiana dovevano necessariamente compromettere.
Paradigmatiche risultarono in tal senso le esperienze vissute dal Fontana, comuni del resto, pur nella varietà delle situazioni contingenti, a molti amministratori pubblici cadorini:
Molti furono i viaggi nell'estate '44 per provvedere cereali. Li feci insieme all'ottimo compianto cav. GioBatta Menegus, Segretario comunale di S.Vito, con l'auto a gasogeno di Nello Sgrelli, bravo autista quanto fedele compagno. In un viaggio a Treviso alla "Direzione Generale dell'Alimentazione" della "Repubblica di Salò" fummo accompagnati dal consigliere germanico presso la "Sepral" di Belluno e, superato nel ritorno un rastrellamento fascista nella provincia di Treviso, dopo Fener, sfuggimmo per poco ad un appostamento di partigiani. Probabilmente la presenza del funzionario tedesco avrebbe messo tutti nei guai, sebbene i "Comitati di Liberazione" vedessero favorevolmente l'attività svolta per procurare viveri alla popolazione.
Dichiarato improvvisamente zona di guerra il Polesine, dovetti precipitarmi ad Adria, per portare permessi militari della "Komandatur" di Belluno a Guido Petris, che, munito di permessi non più validi delle autorità civili tedesche della nostra provincia, era stato fermato dalle forze militari germaniche. Il mio tempestivo intervento potè evitare la requisizione del camion e permettere a Petris di ritornare in Cadore con un carico di frumento. Il passaggio di giorno sugli argini e sul ponte dell'Adige a Cavarzere fu molto rischioso, per il pericolo rappresentato dai "Pippo", come erano denominati gli aerei, che isolatamente, più o meno in continuazione, mitragliavano i veicoli transitanti lungo le strade. L'autista, che in quell'occasione non era lo Sgrelli, in un primo tempo si era rifiutato di proseguire. Altre volte a Padova, a Treviso e pure a Belluno, dovemmo correre nei rifugi od allontanarci al più presto dai centri abitati per sfuggire ai bombardamenti aerei.
Da queste e altre simili esperienze si può comprendere come i partigiani, non solo ovviamente cadorini, si trovassero in una non facile situazione psicologica nei confronti della popolazione: costretti da una parte a requisizioni certo mai bene accette e portati dall'altra, più o meno convinti, ad interrompere quel flusso di comunicazioni e rifornimenti da cui dipendeva la sopravvivenza dei civili, ma pure loro personale. Amletici dubbi davvero, che rischiavano di compromettere sia la lotta presente e futura prossima, sia l'avvenire stesso dei propri paesi a guerra finalmente conclusa.
Pillole di storia n.10
Tratto dal libro "GUERRA E RESISTENZA IN CADORE" di Walter Musizza e Giovanni De Donà
(Capitolo "Gli avvenimenti dall' 1 al 15 settembre '44")
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Nel frattempo, il 4 settembre, la "Garibaldi", quasi a voler ribadire la sua sovranità nella zona nord-occidentale, fra Carnia e Cadore, attaccava con uomini del Btg. "Friuli" e del Btg. "Magrini" il presidio tedesco di Sappada, ospitato a "Villa Margareth". Nel corso dell'azione vennero catturati tre tedeschi messi di guardia al Passo Siera, tutti originari di Sesto, dei quali uno poi riuscì a fuggire.
Nello scontro morirono due tedeschi e il Podestà di S. Stefano ricevette l'ordine di mettere a disposizione tre camion per il trasporto delle salme in Pusteria. I camion, mentre erano di ritorno da Sappada, fra il ponte sul Cordevole e Presenaio, vennero assaliti, il giorno 5, dagli uomini dell'"Oberdan" e nello scontro fu ucciso un militare della scorta ed altri due rimasero feriti.
I partigiani, informati per tempo sul passaggio sicuro dei mezzi, s'erano appostati fin dalle prime luci del giorno circa 500 metri prima di Presenaio: una squadra sulla scarpata dove oggi c'è il materiale di scarico della miniera di "Salafossa", ed un'altra dalla parte opposta, sopra la strada che allora (e fino all'alluvione del '66) correva sulla destra orografica del Piave. Luigi Solagna "Fischio" di S. Stefano così ricorda lo scontro:
Non sapevamo con che carico gli automezzi sarebbero transitati, se con truppe, materiali o altro. Per nostra fortuna i camion ritornarono da Sappada con a bordo solamente una dozzina di soldati ed una bara. Noi ci eravamo appostati nel bosco sovrastante e all'arrivo dei tedeschi ci siamo messi a sparare come indiavolati. Uno di noi, Igino De Candido "Bill", da vero irresponsabile, si era piazzato in un tombino a lato della strada e da lì sparava a bruciapelo sui militi, costretti a fermarsi e distanti solo pochi passi.
Va precisato che durante il breve ma intenso scontro a fuoco i tedeschi riuscirono a rifugiarsi in una casa vicina, una vecchia osteria, e si appostarono al primo piano, incuranti di una famiglia di civili che si trovava al pianterreno. Dopo alcune trattative gli assediati accettarono la resa, peraltro con l'onore delle armi: fu permesso infatti al Tenente Comandante del convoglio di tenere la rivoltella col colpo in canna almeno per qualche minuto.
Due di loro erano rimasti feriti ed uno in particolare appariva in fin di vita, gravemente leso al ventre. Li portammo all'albergo "Fabian' a Mare di Campolongo e li deponemmo a letto in due stanze, mentre un Tenente ed un Maresciallo, fatti prigionieri, furono condotti da me ed altri a Costalta. Il Tenente, alto e biondo, era nativo di Colonia, mentre il Maresciallo veniva da Berlino ed era rimasto ferito ad una spalla.
Il cadavere trovato nella bara sul camion fu invece portato a "Cima Confin", presso Forcella Lavardet e là sepolto.
I 12 prigionieri vennero rinchiusi in tre fienili sopra Costalta e successivamente trasferiti a Costa di Comelico Superiore nei locali della latteria, precisamente nella stanza destinata alla conservazione del formaggio, dove rimasero parecchi giorni. Una notte uno dei prigionieri fuggì, approfittando dell'ingenuità di un sorvegliante di Domegge di appena 17 anni, da poco montato di guardia, e forzando la grata di protezione del gabinetto. Fu dato subito l'allarme e il Comandante Ivo Bergagnin "Bosco" ritenne necessario spostarsi immediatamente con tutti i prigionieri in altra località. Con un tempo terribile, sotto la pioggia e la neve, in cinque a sorvegliare undici, ci dirigemmo verso Costalta, poi da Campolongo, attraverso la "Merenderà", salimmo a Razzo ed infine ci sistemammo nella caserma di "Antoia", dove era distaccato il Btg. "Oberdan". Successivamente, passando per Lorenzago, ci siamo portati al nostro campo di prigionia al Mauria, presso "Stabie", ed abbiamo consegnato i tedeschi a "Ludi", che poi ha provveduto a trasferirli al campo di Ampezzo, sotto la giurisdizione dei carnici, dove peraltro non sarebbero rimasti a lungo. Del prigioniero fuggito non abbiamo mai saputo nulla.
Pillole di storia n.11
Tratto dal libro "GUERRA E RESISTENZA IN CADORE" di Walter Musizza e Giovanni De Donà
(Capitolo "Gli avvenimenti dall' 1 al 15 settembre '44")
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Così racconta invece lo scontro di Presenaio G. Gallo:
... attaccammo due camion tedeschi nella valle del Piave all'altezza di Presenaio, provenienti da Sappada. Colti di sorpresa i soldati scappavano da tutte le parti, internandosi tra i massi del fiume e il bosco, trascinandosi dietro i feriti, e infine si rifugiarono in una casa isolata ai bordi della strada statale. Noi si sparacchiava poco convinti perché non è facile, neanche avendo in corpo un odio profondo, ammazzare gente che fugge. Cosicché a mezzogiorno la situazione era questa: trenta tedeschi, guidati da un ufficiale, asserragliati in casa, e noi quindici partigiani a stringerli d'assedio. Si trattava di militari della Wehrmacht e non ci risultava che, al presidio, avessero commesso scelleratezze.
Il blocco si trascinava da un po' di tempo, con isolati colpetti da una parte e dall'altra, quando decisi di interpellare il nemico col mio linguaggio tedesco scolastico e vagamente letterario. Gridai che si arrendessero altrimenti morivano tutti, che avremmo dato fuoco alla casa e finivano arrostiti.... L'ufficiale, per nulla intransigente e propenso ai conversari, proclamò che erano soldati, invocò l'onore militare, il rischio di rappresaglie contro i loro familiari se gettavano le armi. In conclusione tiravano in lungo e non si arrendevano.
A quel punto ero abbastanza infastidito: uscii allo scoperto e mi avvicinai alla
casa assediata fin sotto alle finestre, sicuro che non mi avrebbero sparato
addosso. Si affacciarono l'ufficiale e alcuni soldati. Dissi serio, sempre in
tedesco aulico, che avrebbero avuto salva la vita e li avremmo trattati secondo
il diritto internazionale.
Il tenente della Wehrmacht, mezzo esitante e mezzo convinto, replicò» "Non siete in condizione di fare prigionieri, noi ci arrendiamo e voi ci ammazzate". Gli risposi che eravamo soldati anche noi e non briganti, lui si accorse che stavo perdendo la pazienza. "Tuttavia...". Mi venne un colpo di noia e un colpo di fantasia. Pronunciai solennemente, ad alta voce perché sentissero tutti, un detto germanico che mi era rimasto in orecchio dai banchi di scuola: "Ein Mann, ein Wort" (Un uomo ha una sola parola).
Si arresero immediatamente e uscirono dalla loro tana consegnando le armi. Potenza dei proverbi tedeschi. Facemmo curare dal medico di S. Stefano i feriti e poi inviammo i prigionieri al campo di raccolta di Ampezzo nella "Zona Libera" della Carnia, dove furono trattati bene, nei limiti del possibile, sfamati anche dai valligiani. Molti di loro sono certamente tornati a casa e forse oggi ricordano ancora quei partigiani cadorini e carnici, quelle popolazioni miserabili della montagna povera che avevano conservato, in una lotta spietata, la pietà umana».
Nel conciliabolo per pattuire le condizioni di resa un ruolo importante sarebbe stato ricoperto da Giovanni De Martin Pinter, che avrebbe persuaso i tedeschi a consegnare armi e munizioni (4 mitragliatrici, 14 fucili Mauser, 16 bombe a mano, 1 cassetta di cartucce a nastro), salvando così Presenaio dalla prevedibile ritorsione nazista nel caso i soldati fossero morti nel rogo.
Questi avvenimenti esposero naturalmente tutto il Comelico ai rischi della rappresaglia tedesca, le cui prime avvisaglie si ebbero in effetti il pomeriggio del 7 settembre. Ecco come affrontò la situazione il Podestà di S. Stefano G. Fontana, che proprio allora era intento a presiedere una riunione del "Comitato Consultivo":
... mentre si discuteva sulla situazione, pervenne una telefonata da Candide annunciante l'arrivo di una colonna di gendarmi tedeschi. La riunione si sciolse ed io rimasi solo. Istantaneamente la notizia si diffuse, causando un panico generale. Mi telefonò subito mia moglie consigliandomi di allontanarmi anch'io, e le risposi che questo era invece il momento di rimanere al mio posto.
Uscii dal Municipio per recarmi a tranquillizzarla, vidi i negozi e l'Ufficio
Postale abbassare le saracinesche, rientrai ed incaricai il capo delle Guardie
di ordinarne la riapertura, per non presentare il paese in
veste di colpevole. Ritornato a casa, arrivarono in bicicletta due
operai da Campolongo, che lavoravano a Comelico Superiore, con l'incarico del
comandante della colonna di avvisarmi di preparare gli alloggi. La colonna
arrivò sull'imbrunire, si fermò all'inizio del paese davanti
l'ex caserma dei carabinieri. Mi recai ad incontrarli insieme a Emilio Grandelis,
che conosceva il tedesco. Fummo accusati di essere tutti banditi, ci difendemmo
dicendo come al solito che i partigiani erano forestieri. Troncato il colloquio,
mi ordinarono di provvedere un'ambulanza, ma anche l'autista dell'ambulanza,
come molti altri, era fuggito nei paesi alti. Sperai che Guido Petris e Giuseppe
Da Rin fossero rimasti a casa. Li mandai a chiamare. Vennero subito e dopo aver
sfondato la porta del garage, mentre si stava mettendo in moto l'ambulanza,
arrivò un camion di
SS da Cortina.
Dopo un breve colloquio dei comandanti coi gendarmi, mi fecero montare sul camion, vi salì pure volontariamente Guido Petris, dicendomi: "Non ti lascio solo!". Si andò a Mare e le donne dell'albergo Fabian vedendoci si rincuorarono, perché anche qui gli uomini erano fuggiti. Trovammo i feriti, per quanto possibile, ben curati, con generi di conforto, latte e uova sui comodini. I tedeschi sistemarono i feriti su dei materassi e fecero rimontare anche noi sul camion, con la speranza che ci scaricassero a S. Stefano. Non conoscendo il tedesco eravamo all'oscuro delle loro intenzioni. Verso le ore 22 scendemmo in piazza, il paese era buio e deserto e rincasammo. Trovai mia moglie ed i figlioli piangenti poiché erano rimasti senza alcuna notizia di quanto mi fosse accaduto e pensavano ormai a tutte le peggiori ipotesi.
Fui svegliato all'alba. La mia casa era circondata con postazioni di fucili mitragliatori. Scesi e dovetti far entrare il comandante e l'interprete. Furono poste sentinelle nel corridoio e si accomodarono nel salotto, con una sentinella alla porta. Mi ingiunsero di recuperare le salme, di far preparare la cassa per l'ucciso nello scontro, croci costruite secondo la loro usanza e corone di fiori. Proposi di seppellirli nel cimitero militare. La visita al cimitero, dove le tombe erano uguali e ben curate, sia per i caduti italiani come per quelli austriaci della guerra 1915-18, allentò un po' la tensione. Le salme furono recuperate dai vigili del fuoco, al comando del brigadiere Candido De Candido, accompagnato da Guido Petris e da Emilio Grandelis. La tumulazione alla quale dovetti assistere fu salutata da scariche di mitra e di fucili e da un discorso del comandante che promise vendetta, tradottomi da Enrico Danieli.
Nei primi giorni di permanenza dei gendarmi dovetti provvedere a far macellare un capo di bestiame per loro. A Campolongo si macellava per i partigiani stanziati nella Val Frison ed in Antoia.
La signora Giovanna Fabian, ormai ultranovantenne, ricordava che dei due feriti tedeschi portati nel suo albergo, uno, di cognome Albin, soldato semplice, era gravemente ferito al ventre e morì di peritonite pochi giorni dopo nella stanza n. 8. L'altro, un sergente di alta statura, al quale "Ludi" aveva fasciato un braccio, venne messo nella stanza n. 6: era molto debole per il molto sangue perduto ma riuscì a salvarsi e fu portato via da suoi compagni.
Pillole di storia n.12
Tratto dal libro "GUERRA E RESISTENZA IN CADORE" di Walter Musizza e Giovanni De Donà
(Capitolo "Gli avvenimenti dall' 1 al 15 settembre '44")
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Il 10 settembre avvenne un importante scontro a fuoco tra partigiani e reparti tedeschi al Passo Siera, che mette in comunicazione la Val Pesarina con la conca di Sappada, sfruttando sul versante meridionale una strada militare della Grande Guerra. Qui, per l'importanza della posizione, il Comando della Brigata Garibaldi Carnia aveva dislocato un posto fisso di osservazione e difesa, formato da pochi uomini nascosti su un cucuzzolo prospiciente Sappada, col compito di segnalare eventuali iniziative nemiche dirette verso la Val Pesarina.
Nelle prime ore della notte del 10 settembre si avviò da Sappada verso il passo una lunga colonna di circa 300 tedeschi, formata in gran parte da riservisti reclutati in Alto Adige e a Livinnallongo. Nei giorni 7 ed 8 settembre il gruppo, tenuto all'oscuro delle finalità dell'operazione, s'era raccolto nell'ex caserma dei Carabinieri Reali di S. Stefano: una parte era giunta a piedi attraverso il Passo di Monte Croce proveniente da S. Candido, un'altra era arrivata da Cortina, utilizzando la ferrovia fino a Dobbiaco e quindi degli automezzi fino a S. Stefano. Poiché la strada normale dal Passo a Padola era intransitabile per il sabotaggio di un ponte ad opera dei partigiani, venne utilizzata la vecchia strada, a malapena carreggiabile. Ben presto si divulgò la notizia, dentro e fuori la caserma, che questi uomini erano destinati a dare una risposta all'azione partigiana di Presenaio del 5 settembre e a tentare di liberare la decina di prigionieri tedeschi fatta in quell'occasione. L'ordine di adunata e partenza arrivò verso le tre pomeridiane e il grosso della compagnia si mise in marcia in fila a tre a tre sullo stradone polveroso, tenendo una distanza di 5 metri tra un uomo e l'altro, preceduto e seguito da gruppi in fila indiana, che tenevano una distanza di cinque metri tra un uomo e l'altro. Erano stati lasciati a S. Stefano i sacchi da montagna e i tascapane, cosicché tutti ritenevano di essere impiegati in una semplice ricognizione. La meta invece era Sappada, raggiunta dopo quattro ore di cammino alle prime ombre della sera, dopo essere passati, invero con molti timori, sui luoghi stessi dello scontro di Presenaio, dove al proprietario stesso dell'albergo furono richieste informazioni. Vennero alloggiati in un albergo vicino alla strada, salutati con piacere dal locale Presidio. Verso le ore 10 del 9 settembre arrivarono due camion carichi di soldati, dalle giubbe multicolori, armati molto meglio, e soprattutto più giovani: erano membri della Polizia n. 1 ed erano dotati di mitragliatrici e di un cannoncino. Questi proseguirono verso il centro di Sappada e nelle prime ore del pomeriggio si sentirono, in alto, fra le rocce, sul versante destro, circa 10-12 colpi. Intorno alle 17 si vide innalzarsi verso Passo Siera un denso fumo, indizio di fienili incendiati. Alle 5 del 10 settembre, una domenica, i riservisti, con viveri per tre giorni ed un carico complessivo di 30 chili, divisi in gruppi di 12, passarono il Piave e attraversarono il bosco alla volta del Passo Siera. La salita nell'ultimo tratto era dura, con tratti di scalinata a poggioli in legno e su sentiero ripido e stretto, speso scavato nella roccia. In un boschetto di larici un forte odore di bruciato si diffondeva nell'aria: erano i resti del fienile di montagna cui i giovani avevano appiccato il fuoco il giorno prima. Tale atto vandalico, che veniva ad annichilire i tanti sacrifici di una povera famiglia, venne disapprovato "ad unanimità" dagli anziani riservisti. Dopo tre quarti d'ora di ulteriore salita il gruppo, verso le 8 del mattino, arrivava al passo e alla piccola conca contornata da rocce, con pascoli magri e sassosi. In alto si vide una larga cortina di fumo e si sentì lo schioppettio delle fiamme: i giovani stavano dando alle fiamme un baraccamento, composto da un ricovero per il bestiame e un ricovero per i pastori, nonché da altre piccole bicocche vicine.
Verso le 9 del mattino venne incendiato pure il ricovero con lunga tettoia (circa 40 metri) della casera "Siera di Sotto" (m 1430): le bestie ricoverate erano state cacciate via, i pastori (un uomo di circa 60 anni ed un ragazzo di circa 13 anni) avevano ricevuto l'ordine di portare all'aperto le loro masserizie ed il fuoco era stato appiccato ai due lati del fabbricato.
Allorché il reparto di polizia n. 1 si era avvicinato al passo, i quattro garibaldini ivi appostati avevano cercato di contrastarlo, ma vistisi presi da una manovra avvolgente, si erano a poco a poco ritirati, saltando di roccia in roccia, ed uno era corso precipitosamente a valle per dare l'allarme in Val Pesarina. Quando il reparto tedesco, scendendo prudentemente, si avvicinò al fondo valle alle prime luci dell'alba, si trovò di fronte un reparto di circa 50 garibaldini, frettolosamente raccolti e comandati da "Ivan" (Livio Toniutti). Nonostante l'inferiorità numerica, i garibaldini, perfettamente a loro agio su quel terreno ben noto, riuscirono con tre soli mitragliatori e poche munizioni ad assumere l'iniziativa e a ricacciare indietro i tedeschi. Un mitragliatore ben appostato dei partigiani cominciò a battere la mulattiera, mentre un secondo mitragliatore cominciò ad aprire il fuoco da "Questamus" ed un terzo incrociò il tiro da "Tesis"; un quarto infine rinforzò il fuoco dei garibaldini da fondovalle. Dopo due ore di fuoco a distanza vieppiù ravvicinata, i nazisti iniziarono a rinculare, ritirandosi frettolosamente verso il Cadore.
Nel frattempo Osvaldo Fabian "Elio", sentendo il rumore degli spari, aveva raccolto a Prato un buon numero di compagni della "Guardia del Popolo", tra cui 1'arch. Della Marta e l'allora studentessa D'Agaro, e si era precipitosamente portato sul luogo del combattimento. Il gruppo arrivò agli stavoli di "Culzei", dove ottenne notizie confuse sul succedersi degli eventi e dove si udivano fitte raffiche di mitragliatore provenienti dall'alto. Si portò quindi sopra "Tesis", dove furono scorte copiose macchie di sangue sul terreno, con bende e cotone insanguinati, e da qui proseguì ancora in salita fino alla malga "Siera di Sotto", fermandosi a riposare, anche perché nel frattempo non si sentiva più sparare.
Finché il gruppo dei giovani militi nazisti aveva continuato ad avanzare, gli anziani riservisti lo avevano seguito ad una certa distanza, prima sostando sull'orlo della strada nei pressi della stalla in fiamme e poi nascondendosi nel bosco per l'azione di una mitragliatrice dei partigiani che sparava contro di loro, seppur da molto lontano. Riuscirono a scendere parecchio verso la Val Pesarina, fino alla zona prativa, da dove si riusciva a scorgere perfino dei civili nei pressi delle loro case. Allorché i militi giovani furono costretti a ritirarsi velocemente, vennero a mettere in chiara difficoltà lo stesso gruppo degli anziani riservisti che in disordine riguadagnarono il fitto bosco, incalzati da raffiche e da detonazioni che qualcuno riconobbe come tipiche delle granate a mano inglesi. Ad un certo punto tra i tedeschi che si ritiravano venne a trovarsi un partigiano, che di corsa sembrava cercare pure lui scampo: un tedesco gli sparò contro, senza peraltro essere sicuro di averlo preso. Un portatore della cassa munizioni del gruppo di riservisti inciampò e cadde, facendo rotolare la cassa lungo il pendio della valle. Finalmente la colonna dei vecchi riservisti raggiunse la zona del passo, dove dei due stalloni non rimaneva che un ammasso di cenere e legname bruciato, e da qui proseguì subito senza soste alla volta di Sappada. Solo nel bosco soprastante il paese fu dato l'ordine di ricostituire i gruppi e di riposare. Si fece l'appello dei presenti e risultò che due erano feriti e quattro erano dispersi. Il comandante dell'azione, certo primo Tenente Gabriel, inferocito per l'esito infelice di quell'azione, tenne un breve discorso affermando che ben pochi tra quei riservisti avevano doti di soldato e che la maggior parte non valeva nulla. Poi la compagnia rientrò a Sappada quando già si faceva sera.
Va ricordato però un episodio abbastanza sorprendente capitato al gruppo dei partigiani del Fabian. Quando costoro giunsero alla malga "Siera di Sotto", assetati com'erano, non rinunciarono a bere ad una piccola fonte che scaturiva dalla roccia e che il malgaro aveva abilmente incanalato con una "sarea" di legno fatta a forma di grondaia, e così fecero altri partigiani dell'avanguardia. Quando tutti si ritrovarono alla malga "Siera di Sopra", sotto un fitto nevischio, avvenne che alcuni improvvisamente divennero lividi in volto e stramazzarono a terra. Si constatò subito che presentavano viso cianotico ed altri chiari sintomi di avvelenamento. Lo stesso comandante "Ivan", fattosi pallido in volto, cadde a terra. Tutti i malati furono trasportati in qualche modo su improvvisate slitte verso gli stavoli "Culzei" e quindi a valle, presso l'ospedaletto organizzato nella sala della Casa del Popolo di Prato. Accorsero diversi medici, primo fra tutti il dr. Liotta, che ordinarono di ingurgitare molto latte e che somministrarono altre medicine, invero efficaci se gli avvelenati guarirono in una decina di giorni. Si ricostruì poi che i tedeschi dovevano aver gettato alcuni pacchetti di potente veleno nella "sarea" della malga, come ultima vendetta prima di ritirarsi.
Il Comandante della Brigata "Tredici", informato che il Passo Siera era rimasto senza presidio, dispose che il Fabian, in attesa di rinforzi adeguati, mobilitasse tutti gli uomini disponibili della "Guardia del Popolo" e dei G.A.P. della Val Pesarina, per stornare un atteso ritorno tedesco lungo la solita direttrice. Però i nazisti non ebbero assolutamente sentore della debolezza partigiana e non si fecero più vivi in zona fino alla grande offensiva del tardo autunno.
Il giorno 11 settembre i riservisti tedeschi del II Zug, verso le 10, furono portati con autocarro con rimorchio a Cima Sappada per levare i reticolati che circondavano l'albergo dove era acquartierato il presidio che ora veniva ritirato. Verso le 13, ultimati i lavori, tutti ritornarono a Sappada e da qui si portarono a S. Stefano, dopo aver scelto peraltro 60 o 70 uomini che dovevano dare il cambio al locale presidio, già in servizio ormai da quattro settimane. Il giorno 14 settembre, verso le 2 di notte, le sentinelle videro un rosso bagliore innalzarsi nel cielo seguito da una cupa detonazione.
Alla mattina giunse la notizia che i partigiani avevano fatto saltare il ponte tra S. Stefano e Sappada, ma i riservisti tedeschi del III Zug ebbero fortuna: nelle prime ore del pomeriggio furono portati con camion a Padola e da qui a piedi lungo la vecchia strada salirono al Kreuzberg, diretti a Toblach, per prendere il treno per Cortina. Sul passo incrociarono altri riservisti provenienti da S. Candido e diretti alla volta di S. Stefano.
Pillole di storia n.13
Tratto dal libro "GUERRA E RESISTENZA IN CADORE" di Walter Musizza e Giovanni De Donà
(Capitolo "La morte di Garbin e gli altri avvenimenti dall' 16 al 30 settembre '44")
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I tedeschi a questo punto poterono avanzare su due colonne, una sulla strada principale ed un'altra sulla strada militare Vallesella- Lorenzago: giunti in località "Gei", presso l'attuale campo sportiva diedero fuoco ad un grande fienile della famiglia De Silvestro, proseguendo poi verso Domegge. Le due colonne circondarono il paese e lo rastrellarono a fondo, a caccia di partigiani, con una popolazione atterrita che già vedeva le proprie case bruciate. Furono catturate diverse persone, per lo più giovani intenti ai lavori: li trascinarono in strada, malmenandoli e picchiandoli. Poi, incolonnati dei giovani, i militi li spinsero davanti a loro, facendosene scudo; requisirono inoltre dei cavalli ed un carro, cui attaccarono il mortaio, proseguendo quindi alla volta di Lozzo. Nel tragitto s'imbatterono, in località S. Anna", nel giovane partigiano comelicese Igino De Candido "Bill", dell'"Oberdan".
Costui nella prima mattinata era stato avvertito che presso "S. Anna" erano stati visti dei soldati, cosicché, inforcata la bicicletta, si diresse verso il luogo segnalato, passando lungo la strada che corre più in basso della statale. Lasciata poi la bicicletta, cominciò a risalire la costa erbosa fin presso i fienili di "S. Anna", ma i tedeschi si accorsero di lui e gli scaricarono addosso molti colpi di fucile automatico. Egli, sebbene armato di mitra, non fece in tempo a rispondere al fuoco, rimase ferito e riuscì solo a trascinarsi sotto un fienile. I soldati gli furono subito addosso e il poveretto fu finito cinicamente a colpi di baionetta.
Nel frattempo era stato messo in funzione il mortaio, col quale furono sparati diversi colpi in direzione di Lorenzago, dove si sapeva che i partigiani erano acquartierati. I colpi però risultarono subito corti e non sortirono alcun effetto, per cui i tedeschi si ritirarono alla volta di Tai, tenendosi sempre come scudo gli ostaggi, che furono rilasciati solo il giorno seguente. Anch'essi ebbero comunque una vittima, un soldato colpito, a quanto sembra, per sbaglio dai suoi stessi commilitoni.
II corpo del De Candido fu recuperato dai compagni quella notte stessa e trasportato prima nella chiesa di Domegge e quindi, attraverso Lorenzago, la valle del Piova e Razzo, a Campolongo. Qui furoino celebrati dal Pievano i funerali e qui fu tumulata la salma, giacché a S Stefano non era prudente farlo, visto che i gendarmi occupavano proprio la casa attigua a quella dei De Candido.
Igino De Candido "Bill" di S. Stefano, caduto a Lozzo il 24 settembre 1944
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Pillole di storia n.14
Tratto dal libro "GUERRA E RESISTENZA IN CADORE" di Walter Musizza e Giovanni De Donà
(Capitolo "La morte di Garbin e gli altri avvenimenti dall' 16 al 30 settembre '44")
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...siamo nel 1944 - estratto che riguarda il nostro Comelico...
Il 25 settembre il presidio tedesco di Sappada era stato nel frattempo nuovamente attaccato da partigiani camici del Btg. Magrini e di una squadra del Btg. Friuli; L'azione, preceduta dalla cattura di una pattuglia nemica intenta al trasporto di tronchi nella conca di Sappada il giorno 23, dal taglio delle linee telegrafiche e telefoniche, nonché da un'interruzione stradale al ponte Cordevole e all'Orrido dell'Acquatona, fu condotta da circa 120 uomini che occuparono un caseggiato di fronte alla caserma, collocandovi un nucleo con 4 mitragliatori che batteva le finestre della caserma.
Venne inizialmente avviata una trattativa, ma i tedeschi, nonostante fosse loro prospettata una massiccia presenza di forze partigiane in zona, risposero che avrebbero comunque fatto il loro dovere. Il combattimento durò tutto il giorno e tutta la notte del 24, continuando pure la mattina del 25, sotto la pioggia e con un freddo intenso ed improvviso. Il presidio alla fine si arrese, dopo aver subito 3 morti e 5 feriti, a fronte di 3 feriti leggeri tra i partigiani. I prigionieri tedeschi furono 130 e il bottino risultò notevole in armi, munizioni e viveri:
Pillole di storia n.15
Tratto dal libro "GUERRA E RESISTENZA IN CADORE" di Walter Musizza e Giovanni De Donà
(Capitolo "I rastrellamenti di ottobre e il frazionamento della Calvi")
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...siamo nel 1944 - estratto che riguarda il nostro Comelico...
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Fin dai primissimi giorni di ottobre circolavano voci sul ritorno in forze dei tedeschi a Pieve, in vista di un prossimo grande rastrellamento. Il giorno 2 una macchina mimetizzata partigiana si recava al forte di Col Piccolo per esaminare la polvere colà ancora depositata e nel pomeriggio dei carri furono riempiti con diversi barili d'esplosivo, destinati a Lorenzago: evidentemente il Comando partigiano, in previsione delle prossime mosse tedesche, pensava alle contromisure, preparando il sabotaggio delle principali arterie.
Purtroppo tale strategia fece delle vittime innocenti tra la stessa popolazione in Comelico: il 4 ottobre degli operai di Campolongo che lavoravano ad un taglio di bosco nei pressi di Monte Croce furono investiti dallo scoppio di alcune bombe e mine poste dai partigiani durante la notte e destinate ai tedeschi. Restò ucciso sul colpo l'operaio Silvio De Zolt Tono e rimasero feriti Isetto Pomarè, in modo grave, e Luigi De Zold Zalada, leggermente.
Va detto peraltro che gli uomini della "Calvi" hanno sempre respinto la paternità di tale attentato, attribuendolo invece al gruppo "autonomo" di Padola, che agiva al di fuori delle direttive della Brigata. In quell'occasione erano stati recisi degli alberi ed i tronchi, fatti cadere di traverso sulla strada, erano stati collegati a delle mine, cosicché i boscaioli, obbligati dai tedeschi a spostarli, restarono investiti dall'esplosione.
Pillole di storia n.16
Tratto dal libro "GUERRA E RESISTENZA IN CADORE" di Walter Musizza e Giovanni De Donà
(Capitolo "I rastrellamenti di ottobre e il frazionamento della Calvi")
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...siamo nel 1944 - estratto che riguarda il nostro Comelico...
Il 12 ottobre i rastrellamenti interessarono anche il Comelico. Un Battaglione di SS prese alloggio nelle scuole di S. Stefano, nel dopolavoro e in vari alberghi: in tutte le vie d'accesso alla piazza e al centro del paese furono stesi reticolati, che di notte venivano serrati completamente e sorvegliati da sentinelle. Da qui partirono tutti i rastrellamenti nei centri limitrofi: ogni paese fu circondato all'alba e perquisito nelle case, mentre tutti i sospettati di connivenza coi partigiani venivano prelevati e portati nella sala del cinema di S. Stefano. Dopo essere stati interrogati, alcuni ebbero la fortuna di venir rilasciati, altri invece finirono internati nel campo di concentramento di Bolzano.
32 uomini, per lo più giovani, vennero fatti partire all'improvviso di domenica e il Podestà Fontana, chiamato da alcune madri mentre in chiesa assisteva alla Messa, potè solo salutarli consegnando loro tutto il denaro che aveva in tasca.
Sempre il 12 ottobre a Campolongo perse la vita Arturo De Zolt Tono, d'anni 31, ex sottufficiale dell'aeronautica: fu fucilato dai tedeschi alle ore 10.30 sul greto del Piave perché sorpreso a disfarsi di una rivoltella.
Durante le operazioni di rastrellamento andarono bruciate la malga di Col Chiastelin e la caserma della Milizia Confinaria in Val Visdende, ritenute ricovero di partigiani, e stessa sorte subirono 5 case di Campolongo, 5 di Costalta e 4 di Comelico Superiore, dove vennero trovati anche armi ed esplosivo. I Vigili del Fuoco furono autorizzati ad intervenire per impedire l'espandersi degli incendi.
Nei giorni 13,14 e 15 reparti provenienti da S. Stefano rastrellarono pure la conca di Sappada, l'alta Val Pesarina e la zona di Sauris.
Arturo De Zolt Tono |
Pillole di storia n.17
Tratto dal libro "GUERRA E RESISTENZA IN CADORE" di Walter Musizza e Giovanni De Donà
(Capitolo "I rastrellamenti di ottobre e il frazionamento della Calvi")
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...siamo nel 1944 - estratto che riguarda il nostro Comelico...
Dopo che il 13 ottobre si segnalò per la parziale distruzione del ponte
ferroviario tra Calalzo e Perarolo, sotto la "Gessifera", si arrivò il giorno 14
ad una triste, ma in qualche modo annunciata, decisione: la rinuncia alla
resistenza armata con il relativo scioglimento del movimento partigiano in
Cadore. I grandi rastrellamenti tedeschi in corso, l'esaurimento delle scorte,
la vieppiù crescente difficoltà di assicurare rifugi e rifornimenti a
consistenti gruppi di uomini in armi in montagna, anche per la non sufficiente
collaborazione assicurata dalle popolazioni locali, indussero il Comando Brigata
ad iniziare la vera smobilitazione. Non si trattava certo della rinuncia
definitiva alla lotta, bensì di un provvedimento che, seppur doloroso, appariva
lucido e pragmatico: non compromettere le forze disponibili e conservarle per la
ripresa della lotta una volta passato l'inverno, ora nuovo e grande nemico,
perché tagliava non solo i viveri, ma pure gli spostamenti e quindi la stessa
operatività in una zona contraddistinta da valli strette e dominate da alte
montagne.
E infatti l'inverno '44-'45 risultò davvero crudele, con neve abbondante e
precoce, nonché con temperature assai rigide. Ciò non impedì peraltro che
ristretti gruppi di combattenti, fisicamente idonei e fortemente motivati,
rimanessero mobilitati in sicuri rifugi d'alta montagna, proprio per assicurare
al movimento la necessaria continuità strategica e morale. Afferma Fornasier:
Era un momento delicatissimo, la popolazione era inquieta, non c'erano viveri,
mentre nessun aiuto si poteva sperare dai CLN, che si erano eclissati. Si decise
pertanto di sospendere ogni attività militare, occultare il materiale e mandare
a casa tutti quelli che potevano farlo e che non erano troppo compromessi. Gli
altri decisero di nascondersi a piccoli gruppi sulle montagne o di andare in
altre zone.
Intorno ai primi di novembre "Paolo" avrebbe dunque ceduto il comando e in
quello scorcio di stagione i capi effettivi della "Calvi" sarebbero divenuti
Carlo Orler "Alberto" e Severino Rizzardi "Tigre" di Auronzo, trovandosi però a
dirigere solo pochi distaccamenti, formati per lo più da tre-quattro persone,
sostenute non più dai CLN, ma esclusivamente dalle proprie famiglie.
La decisione dello scioglimento era collegata naturalmente alle notizie
provenienti dalla vicina Carnia, che inducevano i più compromessi a rimanere
latitanti e quelli meno coinvolti a cercarsi una propria soluzione, secondo i
singoli casi e le varie contingenze personali e locali. L'intendimento era però
sempre quello di mantenere i contatti, di conservare in qualche modo la
struttura dell'organizzazione e di essere pronti alla successiva chiamata.
In effetti la maggior parte dei cadorini scelse di andare con la "Todt", ai
lavori di fortificazione di Termine, fatto questo che fu ben accolto da parte
dei tedeschi, che, con una sorta di "tolleranza5' accettarono il tutto senza
infierire troppo, soddisfatti già di tenere sotto controllo tanti ex partigiani,
piuttosto che saperli nascosti in montagna. Del resto i nazisti erano freschi
reduci dell'esperienza avuta in Jugoslavia, dove avevano imparato come pochi
uomini, senza scendere mai in campo aperto, potessero tener testa ad un esercito
agguerrito: meglio dunque per loro evitare, almeno per il momento, crudeltà ed
accanimenti che avrebbero rischiato di dar nuova linfa ad un movimento già di
per sé in chiara difficoltà.
Come da noi già più volte sottolineato, un'importanza determinante ebbe pure la
paura delle rappresaglie sulla popolazione civile. Paradigmatica è in tal senso
l'esperienza di Aldo Baldissaruti "Baldo", costretto, come tanti altri, a scelte
dolorose ma necessarie:
Quando sciolsero la Brigata ci dissero di tornare alle nostre case e di lasciare
in "Antoia" tutte le armi che i CLN locali avrebbero provveduto a nascondere.
Siamo partiti in tre o quattro di S. Stefano e siamo tornati a casa. Ci siamo
arrivati proprio il giorno in cui i tedeschi stavano facendo il primo grande
rastrellamento, il 12 ottobre. Fummo avvisati in tempo dalla guardia comunale
che i tedeschi volevano tutti in piazza, ma che fare? Nei fienili infilzavano il
fieno con le baionette, per cui non era il caso di cercare là rifugio. Noi, come
tanti altri, avevamo il gabinetto nell'orto, cosicché ci nascondemmo nel tombino
della fogna, dove mia madre provvide a porre un sacco di fieno. Rimanemmo lì
fino all'imbrunire, in mezzo agli escrementi, sfuggendo ai tedeschi che vennero
a controllare il gabinetto ma non si accorsero di nulla. Poi col buio fuggimmo
nei boschi circostanti e rimanemmo alla macchia per oltre 20 giorni sul Monte
Col, dormendo sotto i baranci. In seguito mi portai più vicino al paese,
dormendo in un giaciglio di fieno posto in un boschetto, e in dicembre, dopo
l'uscita del bando che prometteva clemenza a chi si fosse presentato, scesi a
lavorare alla "Todt" di Termine e qui rimasi fino a febbraio-marzo, quando fui
ricontattato dalla Brigata.
Pillole di storia n.18
Tratto dal libro "GUERRA E RESISTENZA IN CADORE" di Walter Musizza e Giovanni De Donà
(Capitolo "I rastrellamenti di ottobre e il frazionamento della Calvi")
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...siamo nel 1944 - estratto che riguarda il nostro Comelico...
Sempre il giorno 17 Sappada (Bladen, naturalmente,
per gli occupanti) subì il suo secondo grande rastrellamento, dopo quello del 1°
luglio. I nazisti procedettero ad arresti nominativi ed obbligarono molti
giovani, anche con le minacce, ad arruolarsi nelle loro fila. Dopo un periodo di
addestramento a Silandro e a Malles, costoro vennero impiegati in operazioni
antipartigiane in provincia di Belluno, a Lamon, a Feltre e nello Zoldano,
assieme ad altri elementi di Cortina.
La stessa giornata vide rastrellato il paese di Costa, il cui svolgimento
ci è stato illustrato dalla testimonianza di Celso De Tomas.
All'alba, mentre diversi uomini si trovavano, per prudenza, a dormire in
"Aiaredo" o comunque fuori dal paese, una giovane donna, intenta a lavorare a "Studeprà",
presso un gruppo di sei fienili, s'accorse che giù nella valle, in direzione di
S. Nicolò, tra le brume di un giorno piovoso, una colonna militare stava
risalendo il costone. Costei corse subito ad avvisare in paese i suoi fratelli,
tutti ritornati a casa dopo l'8 settembre.
Osvaldo, mutilato ad una gamba, fu immediatamente fermato dai tedeschi con una
raffica di mitra a 50 metri circa ad est del paese e costretto a ritornare
indietro. Ben presto tutto il paese fu circondato mentre i soldati cominciavano
a perquisire le case e a convogliare tutti gli uomini nella via principale. Un
Tenente delle "SS" costrinse il proprietario della locanda "Dolomiti", certo
Giacomo, ad indicargli tutti i posti dove avrebbero potuto trovarsi dei
partigiani e a guidarlo poi nei locali della scuola. Qui era appesa la bandiera
tricolore: il Tenente la prese, la pose sopra la testa di Giacomo e,
squarciandola al centro, gliela infilò addosso con caustiche parole,
ordinandogli poi di far da guida nella ricerca dei partigiani. Il povero
Giacomo, con la bandiera malamente avvolta sul corpo e con l'asta
goffamente trascinata dietro, dovette obbedire e portarli presso dei vicini
fienili che finirono tutti incendiati.
Rientrati in paese, egli dovette porsi proprio davanti ad una mitragliatrice,
mentre venivano messi in fila tutti gli uomini sopra i 17 anni, davanti alla
casa Zanon e alla locanda "Dolomiti", a nord della contrada principale del
paese, e veniva operata contemporaneamente la perquisizione delle case. Due
giovani, Corrado, di anni 21, e Bruno, di 19, furono condotti presso il bar,
fatti sedere e bastonati, in quanto sospettati partigiani a causa dei capelli un
po' più lunghi del normale. Altri due, "Nini" e Silvio, all'identificazione
dichiararono di compiere 17 anni quello stesso giorno, per cui vennero
trattenuti, mentre i più giovani e quelli oltre i 65 furono rilasciati.
Durante queste operazioni, un anziano di 73 anni, Luigi Costan, disse di
conoscere la lingua tedesca avendo lavorato per molti anni in Germania, ma,
avendo negato di aver visto in loco partigiani, si buscò due severi ceffoni dal
Tenente, che definì il suo tempo passato in Germania insufficiente per imparare
a dire la verità. Era accorso nel frattempo dalla canonica di S. Nicolò il
curato don Valentino De Martin, d'anni 60, a piedi su per la mulattiera, ma non
potè parlare coi suoi fedeli radunati e fu anzi invitato a tenersi in disparte,
presso la mitragliatrice, sotto la casa dei Dorigon.
Verso le ore 16 tutti i radunati furono portati sotto scorta a S. Stefano,
lasciando il paese nella più completa desolazione: gli internati sarebbero stati
ben 52. I tedeschi sembravano intenzionati a dar fuoco al paese, reo di aver
dato ospitalità a partigiani e a mission alleate, soprattutto nella locanda
"Dolomiti ", tanto che ordinarono di portar fuori dalle case e dal negozio di
alimentari tutte le masserizie. Fatto sta che il giorno seguente non ritornarono
per mettere in pratica quanto avevano esplicitamente promesso e qualcuno pensò
che ciò fosse dovuto all'umano trattamento assicurato dalla gente del posto ai
loro soldati prigionieri presso le scuole.
Del resto era noto a tutti che in loco s'aggiravano molti partigiani e che
questi godevano della simpatia della gente: presso i fienili sopra il paese, che
poi vennero bruciati durante il rastrellamento, trovavano ospitalità molti
combattenti e per un certo periodo furono tenuti anche dei prigionieri tedeschi,
tra i quali un Tenente ed un Maresciallo, che, accompagnati da "Bosco", si
recarono in qualche occasione nella casa di Giannino De Tomas ad ascoltare la
radio, come fecero pure il Cap. Hall e il Magg. Smith.
In paese risiedevano per di più alcuni partigiani malati o convalescenti, come
ad esempio "Feo", rimasto ferito al Passo di Monte Croce durante l'attacco al
locale presidio, e a Costa era stato giustiziato il nazista Piller, che molti
consideravano allora il "Gauleiter"* di mezza Pusteria: impossibile quindi che i
tedeschi non considerassero Costa un autentico covo di "banditi".
Dopo alcuni giorni, dei 52 rastrellati 9, tutti validi e celibi, finirono
internati al campo di Bolzano, mentre i rimanenti vennero liberati. Altri tre
vennero invece arrestati a Kartitsch mentre erano alla ricerca di sale.
*Gauleiter =capo di una sezione locale del Partito Nazista.
Pillole di storia n.19
Tratto dal libro "GUERRA E RESISTENZA IN CADORE" di Walter Musizza e Giovanni De Donà
(Capitolo "I rastrellamenti di ottobre e il frazionamento della Calvi")
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...siamo nel 1944 - estratto che riguarda il nostro Comelico...
Dalla casera di "Piandesire" gli uomini dell'"Oberdan", circa una trentina,
se ne erano andati da poco e, risalita la "Vallinferna", avevano raggiunto per
il sentiero militare il Monte Col, dove tu deciso di dividersi in 4 gruppi e di
tenersi nascosti in fienili o case private a tempo indeterminato. Purtroppo i
tedeschi scoprirono nella casera il materiale (armi e munizioni) nascosto dai
partigiani in una stanza sotto un mucchio di scandolette, e ciò avvenne anche
perché la presenza recente di ospiti lassù fu tradita inequivocabilmente dallo
sterco lasciato dal mulo "Hitler".
Fini dunque incendiata anche la casera di "Piandesire", dopo di che, nel
pomeriggio, le tre compagnie si riunirono presso i! ponte "del Disarmo", sul
torrente Frison: da qui scesero verso Campolongo, ma, giunte all'ultimo ponte,
prima del paese, furono avvistate da alcuni aerei alleati che ritornavano da un
bombardamento sul territorio del Reich. Alcuni caccia scesero in picchiata,
mitragliando e sganciando tre bombe: non si ebbero danni, ma solo tanto
spavento, naturalmente anche da parte degli ostaggi.
Giunti infine a S. Stefano, Arrigo e gli altri vennero liberati ed ebbero la
sorpresa di incrociare, presso il Comando tedesco, la macchina del dr. Leo
Amadori che, accompagnato dal Pievano Peruzzi, dal Podestà G. Nicolai e dal
Segretario Tiziano Maschio, era giunto in Comelico per perorare la loro causa.
Arrigo ricorda anche che a S. Stefano Tita Zanetto fu trattenuto ancora dal
solito Tenente delle SS e che quest'ultimo fu pesantemente redarguito da un
Maggiore della Wehrmacht per il suo comportamento e soprattutto perché non
voleva rilasciare gli ostaggi, nonostante che il Capitano che aveva condotto il
rastrellamento ne avesse fatto chiara promessa già | giorno prima.
La sera dello stesso giorno scadeva il tempo concesso per terminare il nuovo
ponte, ma i lavori non potevano venir conclusi: a fatica fu ottenuta una
dilazione, a patto che i lavori continuassero anche di notte e di domenica. Il
tutto venne reso ancora più difficile da una pioggia insistente che si protrasse
per più giorni e che causava continui rallentamenti alle operazioni.
Il 22 ottobre, di domenica, la giornata era tipicamente autunnale, grigia e
piovosa: mentre gli operai dell'Oltrepiave continuavano a lavorare per terminare
i lavori, l'attenzione tedesca si spostava nuovamente sul Comelico. A S. Pietro
giunsero molti soldati "prussiani", che chiamarono subito a rapporto il Parroco
e gli imposero di riunire in piazza 20 uomini, da prendere come ostaggi per
punire il paese dell'aiuto dato ai molti partigiani della zona. Sebbene il
Parroco si rifiutasse apertamente di collaborare, quasi tutti gli uomini di S.
Pietro vennero rastrellati e condotti a S. Stefano, dove furono lasciati a
languire per tre settimane in carcere. Oltre un centinaio di essi fu poi
trasportato nei campi di concentramento.
Sempre il 22 furono arrestati 18 uomini di Costalta, che vennero condotti a S.
Stefano ma poi subito rilasciati, ad eccezione di uno»
Pillole di storia n.20
Tratto dal libro "GUERRA E RESISTENZA IN CADORE" di Walter Musizza e Giovanni De Donà
(Capitolo "I rastrellamenti di ottobre e il frazionamento della Calvi")
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...siamo nel 1944 - estratto che riguarda il nostro Comelico...
Lo stesso giorno 26 anche Costalta subiva un
ulteriore rastrellamento. I soldati rubarono nelle case alla più non posso,
mentre la popolazione veniva ammassata sul piazzale antistante la chiesa. 70-80
uomini furono arrestati e condotti a S. Stefano: di essi ben 42 finirono nel
campo di concentramento di Bolzano.
In paese vennero bruciate le case dei fratelli De Villa "Cobe", due case
dei Crepuz, un fienile sopra le scuole ed altri due, rispettivamente di Giovanni
Boi a "Fornaiò" e di Augusto De Villa "Palù" a "Cercenà", in quanto sospettati
di aver dato asilo ai partigiani. Per ultima fu data alle fiamme la
"Cooperativa", la cui distruzione causò in tutti gli abitanti dolore e
prostrazione, mentre vigili del fuoco volontari, coadiuvati da vecchi, donne e
bambini, cercavano in ogni modo che il fuoco non si propagasse alle case vicine.
Pillole di storia n.21
Tratto dal libro "GUERRA E RESISTENZA IN CADORE" di Walter Musizza e Giovanni De Donà
(Capitolo "GLI AVVENIMENTI DEL NOVEMBRE 44")
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...siamo nel 1944 - estratto che riguarda il nostro Comelico...
Per la popolazione cadorina ulteriori danni e tanta paura vennero dai
bombardamenti alleati che coinvolsero, direttamente o indirettamente, anche i
nostri paesi, soprattutto nel periodo 4-11 novembre.
S. Stefano, probabilmente perché costituiva un importante nodo stradale,
con 2 ponti sul Piave e 2 sul Padola, fu oggetto di diversi bombardamenti, il
primo e il più grave dei quali avvenne nella mattinata del 4 novembre. Una bomba
centrò il ponte sul Piave, senza però
esplodere, mentre un'altra finì sui prati antistanti la nuova caserma: qui lo
scoppio fu impressionante e il materiale sollevato arrivò fino in piazza,
rovinando molti tetti e causando innumerevoli rotture di vetri alle finestre.
Una terza cadde dietro l'albergo "Kratter" senza esito, mentre una quarta fu
ritrovata, pure inesplosa, davanti alla pensione "dell'Amicizia" : essa peraltro
era a scoppio ritardato, per cui esplose solo nel tardo pomeriggio, causando la
morte di Antonio Buzzo Mucchian, detto "Nin", Valentino Daria ed Eugenio
Pellizzaroli: la sorte volle che costoro si trovassero in quei paraggi mentre
erano di ritorno dal governo delle mucche presso i fienili situati al di là del
Padola. Rimase ferita anche una donna, certa Maddalena Pomarè Montin, detta
"Tata Lena", che si trovava nelle immediate vicinanze. Una quinta bomba, sempre
a scoppio ritardato, cadde sul magazzino di legname del Comune, dietro la
caserma dei Carabinieri, in via S. Candido, ed esplose a notte inoltrata,
causando fortunatamente solo danni materiali.
Per tutti i giorni 5, 6 e 7 novembre si videro o sentirono nel cielo del Cadore
gli aerei alleati che a stormi si dirigevano verso la Germania, e in qualche
occasione si udirono anche in lontananza le detonazioni delle bombe sganciate.
Nel primo pomeriggio del giorno 8 novembre 6 bombe di grosso calibro caddero in
località "Valli da Campo", nel Comune di Lorenzago, in prossimità della s.s. n.
52 del Mauria, a circa 3 km dall'abitato.
Il pericolo che veniva inopinatamente dal cielo indusse i Podestà cadorini a
cercare di concretizzare in qualche modo le misure che il Prefetto Silvetti
aveva già raccomandato nel febbraio di quello stesso anno, tra cui
l'apprestamento di recipienti con acqua, cassette di sabbia, zappe, scuri e
badili nei punti nevralgici delle case, come scale e pianerottoli.
Pillole di storia n.22
Tratto dal libro "GUERRA E RESISTENZA IN CADORE" di Walter Musizza e Giovanni De Donà
(Capitolo "GLI AVVENIMENTI DEL NOVEMBRE 44")
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...siamo nel 1944 - estratto che riguarda il nostro Comelico e Sappada...
Verso la fine del mese Sappada conobbe l'ultimo
grande rastrellamento della sua storia. I tedeschi ordinarono che tutti i
partigiani ed i renitenti alla leva si presentassero immediatamente, minacciando
d'incendio l'intero paese, ma promettendo nel contempo clemenza a tutti coloro
che si fossero costituiti, ai quali veniva prospettato solo l'invio ai lavori
fortificatori di Termine.
Il Parroco allora fece suonare le campane e molti giovani, che erano
ancora alla macchia, furono avvisati, mentre diverse persone, parenti e
conoscenti, svolgevano attiva opera di persuasione nei loro confronti. Quasi
tutti si presentarono e, incolonnati, furono condotti prima a S. Stefano e
quindi a Termine.
Sembrava che la delicata questione dovesse concludersi nel migliore dei
modi, ma alcuni giorni dopo si seppe in paese che alcuni di quei giovani erano
stati portati a Bolzano e chiusi in quel campo di concentramento con l'accusa di
essere disertori dell'esercito tedesco: questo portò alla mobilitazione di tutto
il paese e, proprio durante il periodo natalizio, ad un avventuroso viaggio di
don Quinz e di altri notabili del paese a Maderno, sul lago di Garda, per
impetrare il diretto intervento di Mussolini, che forse qualche effetto potè
avere.
Pillole di storia n.23
Tratto dal libro "GUERRA E RESISTENZA IN CADORE" di Walter Musizza e Giovanni De Donà
(Capitolo "CATTURA E MORTE DEL CAPITANO HALL")
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...siamo nel 1944 - estratto che riguarda il nostro Comelico e Sappada...
Tratto dal libro "GUERRA E RESISTENZA IN CADORE"
di Walter Musizza e Giovanni De Donà
(Capitolo "LA STASI MILITARE INVERNALE E IL LAVORO DI
RIORGANIZZAZIONE INTERNA")
...siamo nel 1945
- estratto che riguarda il
nostro Comelico e Sappada...
Uno dei fatti più importanti e negativi di quell'inverno per l'intero
movimento di Resistenza bellunese avvenne alla fine di gennaio, allorché il
Capitano Hall andò incontro al suo tragico destino.
Nel mese di settembre l'ufficiale americano aveva comunicato ai
partigiani comelicesi la sua decisione, invero inopinata, di spostarsi al più
presto verso la valle del Boite. Subito dopo la distruzione dei ponti del Molinà
e di Treponti (23 e 24 settembre), egli, che allora si trovava preso la locanda
di Benedetto Pomarè a Campolongo, incontrò un sergente e sei prigionieri di
guerra inglesi, cui procurò cibi e letti: essi gli raccontarono "una storia di
partigiani nel Cadore occidentale" e lo indussero a "correre là immediatamente,
ricevere là i lanci". Evidentemente quel racconto fu per lui la molla che,
premuta da una certa insoddisfazione per l'andamento delle operazioni in
Comelico e fors'anche per le posizioni politiche della maggior parte dei
partigiani, coi quali riconobbe spesso di aver avuto discussioni non
propriamente amichevoli (in particolare con "Nemo" a Costa), lo spinse ad una
drastica decisione: portarsi nella zona di Cortina, dove intendeva far spostare
i lanci che attendeva in Val Visdende ed operare attivamente per far saltare
tutte le strade importanti per la ritirata nazista, inficiando il progetto di
resistenza della Alpenfestung. E per seguire tale suo intendimento era disposto
a rinunciare perfino a quell'operatore radio che gli era stato promesso
finalmente, conscio di dover dipendere d'ora in poi dalla radio della missione
Aztec di Joe Benucci, ricorrendo a molti ed estenuanti spostamenti di staffette.
Dopo aver avvisato tramite una lunga lettera il Maggiore Smith di questa
sua volontà, organizzò subito il suo trasferimento, che prevedeva fino ad
Auronzo la scorta di Alfonso Kratter, da parecchio tempo ormai apprezzato ed
affezionato interprete in Val Visdende. Questi ricorda come l'itinerario di
marcia, protrattasi insieme ben oltre Auronzo, fosse stato Val Visdende-Passo
Zovo-Costalta-Gera-Danta-Auronzo-Pian dei Buoi-Rif.Galassi e come il viaggio
fosse avvenuto grazie a diversi uomini
e donne dell'organizzazione, in grado di fornire ricoveri sicuri per il
pernottamento, nonché i viveri indispensabili.
Fornito di cibo presso la casermetta da una squadra di garibaldini lassù
incontrata ed informato del probabile arrivo di molti nazisti da Forcella
Piccola, Hall risalì rapidamente il lato ovest della Val d'Oten, passando a nord
di M. Tranego, per poi scendere sulla statale 51, a Valle di Cadore. Da Venas
raggiunse quindi Forcella Cibiana e da qui, mantenendosi sempre in quota ed
aggirando il lato occidentale del M. Rite, attraverso la Forcella Val d'Inferno,
arrivò a Zoppè con l'aiuto di guide. Il trasferimento risultò molto faticoso,
con 10 centimetri di neve fresca e con il pericolo di valanghe: solo sotto M.
Crot, ad ovest del Passo Staulanza, si raggiunse la strada e si potè così
agevolmente arrivare a S. Fosca, dove Hall accusò sintomi di congelamento al
piede destro.
La decisione di Hall deve essere stata dettata anzitutto dalla sua voglia
d'incidere maggiormente nel settore del sabotaggio delle linee di comunicazione
tedesche, spostandosi in una valle ritenuta a più alta valenza strategica, ma
probabilmente pure dal desiderio di ritagliarsi un suo personale ed originale
spazio operativo, lontano dalla non troppo gradita dipendenza dal superiore
Smith, allora tutto dedito alla Carnia. Sembra inoltre di poter dire che il suo
allontanamento non sia risultato del tutto sgradito ai partigiani del Comelico,
forse da troppo tempo dediti alla protezione dell'americano e troppe volte
delusi nelle aspettative di un aviolancio, tante volte da lui promesso con
inguaribile ottimismo e pur mai avveratosi.
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Pillole di storia n.24
I tedeschi, consci dell'imminente ripresa
delle azioni militari partigiane ed edotti del susseguirsi dei lanci
alleati, nei mesi di febbraio e marzo 1945 tentarono una serie di azioni
volte alla distruzione del movimento e a terrorizzare le popolazioni,
cercando per di più di infiltrare spie all'interno della Resistenza. La
manovra, concepita con larghezza di mezzi e forte spiegamento di forze,
si accanì contro le forze partigiane della sinistra Piave, ma non
raggiunse gli obiettivi sperati.
I partigiani da parte loro andavano però accorgendosi che le truppe
tedesche impegnate nei rastrellamenti non dovevano costituire il vero
nemico e il primario obiettivo di un contrattacco: la prima esigenza
appariva quella di colpire il nemico nei suoi movimenti importanti, cioè
negli spostamenti di divisioni dal fronte italiano al fronte orientale,
con risultati assai più decisivi per la stessa guerra europea. Bisognava
insomma comprendere che erano più importanti le perdite inflitte alle
truppe in movimento che non a quelle addette ai rastrellamenti, che per
lo più erano formate da reparti di polizia e di protezione.
In effetti la zona "Piave" era attraversata da tre importanti linee di
comunicazione: la Bassano-Primolano, la Cornuda-Feltre e la
Conegliano-Ponte nelle Alpi, linee di fondamentale importanza per la
ritirata delle forze tedesche dalla pianura veneta, per la quale erano a
disposizione soltanto altre due importanti linee, la Pontebbana e il
Brennero. Per impedire che l'avanzata alleata potesse successivamente
sfruttare tali linee, erano in corso da parte tedesca importanti lavori
di fortificazione nella valle del Piave (Castellavazzo e Termine), in
Val Zoldana (zona di Forno di Zoldo), Val Cordevole (zona della Muda),
in Val del Mis, Val Cismon, al Ponte della Serra, lavori consistenti in
postazioni per mitragliatrici ed artiglieria, peraltro con uso
eccezionale di cemento, in collegamento con gallerie, ricoveri e
depositi in caverna.
Era stato preparato all'uopo da parte partigiana un piano generale e
coordinato di sabotaggi da attuare contemporaneamente da tutte le
formazioni alle linee di comunicazione al momento della ritirata
tedesca, con azioni multiple di sabotaggio, rafforzate da azioni attive
di disturbo alle suddette vie, nonché a quelle più a nord.
In tale contesto operativo va collocata, per esempio, l'assegnazione
alla "Calvi" da parte del "Comando Militare Zona Piave", il25 febbraio,
del compito di interrompere la linea ferroviaria elettrica
Calalzo-Dobbiaco, nonché la strada statale n. 52 del Comelico. Quest'opera
di sabotaggio fu senz'altro un aspetto della lotta che incontrò molte
difficoltà nel venir recepito e realizzato in Cadore, sia per il forte
impatto logistico e morale dei rastrellamenti tedeschi, sia per la
mancanza di una chiara visione strategica e tattica della guerra in
corso, del piano complessivo della prossima ritirata tedesca.
Tratto dal libro "GUERRA E RESISTENZA IN CADORE" di Walter Musizza e Giovanni De Donà
(Capitolo "LA STASI MILITARE INVERNALE E IL LAVORO DI RIORGANIZZAZIONE INTERNA")
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...siamo nel 1945 - estratto che riguarda il nostro Comelico e Sappada...
Per il periodo successivo al 16 novembre, che
vedeva nominato "Renato" Comandante, "Alberto" Commissario politico, "Ettore"
vice Comandante (poi Ispettore di Brigata) e "Aldo" vice Commissario, egli
tracciava questo quadro allarmante:
Il Comando si diede subito da fare per rintracciare i reparti
dispersi e recuperare le armi. L'azione è stata ed è lunga e difficile, causa la
vigilanza tedesca e l'ostilità della popolazione.
I tedeschi sfruttano con molta intelligenza il loro successo. Sospesero
le esecuzioni, favorirono l'ingresso alla "Todt" di tutti i Garibaldini e dei
componenti delle "GAP", aumentarono il numero degli ostaggi concentrati a
Bolzano, rastrellarono anche i paesi più piccoli, aumentarono il numero dei
presidi ed emisero il famoso bando di presentazione del 6 gennaio di tutti i
"banditi" promettendo la clemenza e la liberazione dei rispettivi ostaggi. Molti
garibaldini, pur di liberare i genitori o la sposa, si presentarono. Furono
interrogati, alcuni parlarono anche un po' troppo, e furono subito rilasciati
con i loro ostaggi.
La "Todt" di Termine è ora affollata di nostri garibaldini, che vivono in
ansia per quanto potrà capitargli in seguito. Ma molti hanno tenuto duro e
vivono con noi dispersi su amplissima zona nei boschi del Cadore, in piccoli
gruppi che variano da due a dodici elementi ciascuno; altri vivendo nascosti nei
paesi e tenendosi in stretto contatto con noi. La loro fede tranquilla, sicura,
decisa, il loro desiderio d'azione grande. Ma i tedeschi non ci danno tregua; ad
ogni stormir di foglia essi passano all' attacco. Si curano anche di quanto
facciamo per la eliminazione delle spie e in Comelico ove non scherzammo,
reagirono immediatamente catturando gli ultimi uomini che ancora circolavano per
i paesi, le madri, le sorelle e persino le fidanzate dei nostri partigiani,
nonché un partigiano con sua madre torturandolo fino a farlo parlare, passandolo
poi, sembra, per le armi.
Per quanto riguarda la popolazione essa ci sempre ostile sebbene molti
ottimi elementi si siano riavvicinati a noi in forma attiva come in occasione
della costituzione delle "SAP". Vi diamo un esempio dell'ostilità della
popolazione: una settimana fa (quindi nel dicembre '44, n.d.a.) "calarono a
Lorenzago, zona nostra, cinque elementi della "Brigata Osoppo" per provvedersi
di viveri: i cinque disgraziati a stento sfuggirono ai tedeschi accorsi dietro
invito della popolazione.
Il Comitato: dopo la riunione del 4 corrente dobbiamo concludere che da esso più
nulla possiamo aspettarci né in mezzi né in propaganda. Il suo comportamento non
si può qualificare e le conseguenze per il Cadore si vedranno qualora i tedeschi
dovessero prendere dei provvedimenti per gli uomini che attualmente lavorano per
la "Todi", com'è fin d'ora prevedibile. Noi dobbiamo perciò ricercare altri
elementi. Ne abbiamo trovato, ma sono umili operai e non persone influenti e
astute come quelle di prima; speriamo che essi, almeno, ci siano sempre fedeli.
Tutta l'opera che noi svolgiamo attualmente è destinata a raccogliere i suoi
frutti nella prossima primavera. Noi speriamo di riuscire perché abbiamo fede.
Speriamo pure di non venire
meno alla vostra fiducia.
Tratto dal libro "GUERRA E RESISTENZA IN CADORE" di Walter Musizza e Giovanni De Donà
(Capitolo "LA STASI MILITARE INVERNALE E IL LAVORO DI RIORGANIZZAZIONE INTERNA")
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...siamo nel 1945 - estratto che riguarda il nostro Comelico e Sappada...
Il 10 febbraio la 10a cp. SS di S. Stefano
comandata dal Cap. Hennecke operò un rastrellamento in Comelico con due gruppi
separati. Il primo, guidato dal Ten. Herberc e composto da una ventina di
uomini, partì alle ore 4 per Costa, il secondo, agli ordini del sottufficiale
Bergmann e con una forza di 29 uomini, si portò in macchina alle 3.30 a nord di
Casamazzagno ad un deposito d'armi che era stato colà segnalato. Questo però,
nonostante fosse guidato da un Festini che conosceva bene la strada, trovò solo
una vecchia trincea della Grande Guerra e fece ritorno alla base alle 15.30. Il
Festini fu inviato allora presso il gruppo operante a Costa, dove effettivamente
fu trovato un deposito, senza però le munizioni segnalate, che erano state già
asportate. Contemporaneamente a S. Stefano venivano arrestate delle persone
sospette che furono peraltro rilasciate dopo interrogatorio, mentre altre
persone, segnalate come appartenenti al Comitato, non furono rintracciate.
L'11 febbraio '45, alle 6 di mattina, venne arrestato nella sua casa di
S. Stefano Giovanni Fontana. Militi armati delle SS lo portarono dapprima al
dopolavoro, sede delle truppe tedesche, e successivamente, verso mezzogiorno,
all'albergo "Kratter", dove il Capitano Comandante gli notificò 4 accuse: aver
dato 40 vere d'oro ai partigiani, procurato loro viveri, assicurato
finanziamenti e tenuto impiegati in Municipio due di loro. Assieme al Fontana
vennero arrestati pure Nello Sgrelli, Ettore De Candido, Antonio Bergagnin,
Berto Buzzo Saler ed un forestiero, ma gli ultimi tre furono ben presto
rilasciati, in quanto scambiati erroneamente per altre persone.
Verso le ore 17 arrivarono da Cortina ufficiali della Gestapo, ai quali
il Fontana spiegò, tra le altre cose, di non aver posseduto mai 40 vere d'oro e
di non aver detenuto alcuna carica, né politica né amministrativa, al tempo
dell'oro raccolto per la patria. Fortunatamente l'ex segretario amministrativo
Albano Pellizzaroli, che aveva conservato documentazione dell'oro raccolto e
della sua consegna alla "Federazione Provinciale dei Fasci", venne a confermare
la sua deposizione, cosicché egli venne rinviato al dopolavoro e, quando ormai
era già notte, finalmente rilasciato.
Era chiaro ormai a tutti i cadorini, ancorché digiuni di informazioni
precise sull'evoluzione del quadro strategico del conflitto e dei reali rapporti
di forza, che il moltiplicarsi degli aerei alleati sopra le loro teste era
indice delle difficoltà dell'esercito tedesco e di una sua prossima resa, anche
se si doveva per contro constatare come un
ennesimo sacrificio venisse richiesto proprio al Cadore, sottoposto alle
conseguenze, talvolta mirate ma più spesso accidentali, di improvvisi
bombardamenti, che scandirono puntualmente tutti i primi mesi dell'anno.
Pillole di storia n.27
Tratto dal libro "GUERRA E RESISTENZA IN CADORE" di Walter Musizza e Giovanni De Donà
(Capitolo "LA STASI MILITARE INVERNALE E IL LAVORO DI RIORGANIZZAZIONE INTERNA")
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...siamo nel 1945 - estratto che riguarda il nostro Comelico e Sappada...
Il 22 febbraio bombe caddero per la seconda volta su S. Stefano, senza peraltro
produrre gravi conseguenze. Rimasero letteralmente coperti dal materiale
sollevato dalle esplosioni il cappellano don Riccardo Strim e la giovane
Vittoria De Mario, che in quel momento stivano transitando sul sentiero che
portava a Costalissoio: miracolosamente non riportarono alcuna ferita e se la
cavarono solo con un grosso spavento.
Il 25 febbraio fu Danta a subire un bombardamento e il 27 una grossa
bomba fu indirizzata sulla diga di S. Caterina ad Auronzo; per fortuna cadde
nell'acqua del lago e provocò solo la rottura dei vetri delle case vicine,
giacché un cedimento della diga avrebbe potuto avere conseguenze tremende.
Alla fine di marzo la
"Magnifica Comunità" di Cadore ottenne la liberazione di quasi tutti gli
internati cadorini dal campo di concentramento di Bolzano ed il loro
trasferimento all'organizzazione lavoro "Todt": a prelevarli con un camion si
recò lo stesso G. Fontana, accompagnato dal Commissario prefettizio di S. Pietro
di Cadore Gildo Cesco.
Anche questo in definitiva poteva essere interpretato come segno del disperato
bisogno tedesco di manodopera per i lavori di fortificazione e quindi
dell'imminenza ormai della battaglia decisiva.
Pillole di storia n.28
Tratto dal libro "GUERRA E RESISTENZA IN CADORE" di Walter Musizza e Giovanni De Donà
(Capitolo "LA LIBERAZIONE")
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...siamo nel 1945 - estratto che riguarda il nostro Comelico e Sappada...
La liberazione
Il giorno 1 aprile 1945 era Domenica di Pasqua ed anche in Cadore da ogni
chiesa ed ogni umile desco familiare spartanamente imbandito s'alzava la
preghiera per la fine di quel tremendo conflitto, che sembrava aver eletto
davvero le nostre valli a suo ultimo, drammatico teatro. Era la preghiera per
una pace invocata da tempo, pagata e meritata ormai da mille sacrifici, tante
volte adombrata e altrettante defilatasi beffarda, ma ora finalmente suffragata
da notizie attendibili, da fatti concreti, per certi versi addirittura visibili.
Si moltiplicavano di giorno in giorno i segnali del cedimento tedesco, piccole
testimonianze invero già manifestatesi nei mesi precedenti, tangibili perfino
nella realtà dei nostri piccoli paesi: esse, rimaste finora episodiche, isolate,
mai fuse in un contesto nitido per la gente umile e profana, ora invece
concordavano nitide e lampanti nel delineare anche agli occhi dei più scettici e
prudenti la percezione netta che la guerra andava davvero di corsa verso il suo
epilogo e la grande Germania verso la sua catastrofe.
D'altra parte, pur in presenza di evidenti segni della prossima fine, una
parte consistente della popolazione continuava a cullarsi, forse ora più che
mai, in una sorta di acritico attesismo, rifiutando pure gli ultimi sacrifici
richiesti dai partigiani attraverso alcune requisizioni di burro e formaggio e
condannando moralmente più i bombardamenti alleati e certi furti in extremis a
danno delle truppe naziste in ritirata che non le reiterate e ben più vergognose
sopraffazioni commesse da queste nei mesi precedenti.
H Gen. tedesco Vietinghoff, che dal mese di marzo sostituiva Kesserling,
con le sue 27 divisioni tedesche, peraltro incomplete e poi ridotte a 23,
supportate da eterogenei reparti fascisti, cosacchi, caucasici e cetnici,
intendeva svolgere una ritirata "elastica ed aggressiva", scandita lungo le
varie linee di difesa predisposte nella pianura padana, nelle Prealpi e nelle
Alpi, puntando infine sulla resistenza ad olranza tra i bastioni delle montagne
bavaresi, in attesa fidente dei miracolosi esiti delle promesse armi segrete.
Da parte
sua il Gen. Clark con il suo 15° Gruppo Armate multinazionale contava di
espugnare in almeno due punti la "linea gotica" affidandosi alla manovra rapida
dei corpi motorizzati e agli interventi massicci ed annichilenti dell'aviazione
(Brìtish Desert Air Force e Mediterranean Air Command), programmati e guidati
dai messaggi delle missioni alleate, tra cui spiccava la Margot-Hollis dell'O.S.S.3
La vera offensiva anglo-americana iniziò il 5 aprile '45 nel settore tirrenico
(5a Armata di Truscott) e il giorno 9 in quello adriatico (8a Armata di Me
Creery), ma solo il giorno 10 Clark inviava ai comandi della Resistenza un
messaggio radio per annunciare che la battaglia finale era cominciata. In verità
il ruolo assegnato ai partigiani non era quello sperato: gli Alleati esitavano
ad investire il movimento garibaldino di responsabilità militari che
rischiavano, a guerra finita, di tradursi in potere politico comunista.
Ma il CLNA.I. e il C.V.L., fra il 13 e il 20 aprile, stilarono ordini chiari
sull'insurrezione generale, volta a liberare le città grandi e piccole e a
bloccare il grosso delle forze naziste in ritirata. Il "Comando Regionale
Veneto", che estendeva la sua giurisdizione anche sul Friuli, decretava
l'insurrezione nella notte del 26 aprile:
Il giorno 27 aprile, dopo aver sistematicamente eliminato tutti i presidi della
loro zona, i reparti della divisione Garibaldi "Nannetti" si portarono
all'offensiva sulla strada contro il nemico in ritirata. Il gruppo brigate
"Vittorio Veneto" bloccava tutte le strade della pianura che portavano al passo
del Fadalto ed effettuava, con l'intervento delle organizzazioni territoriali
locali, il blocco del passo interrompendolo in più punti con ostacoli mobili,
predisponendone anche la difesa. Dopo ore di fuoco con tutti i mezzi di cui
potevano disporre, dalle mine stradali all'abbattimento di alberi sulle strade,
le forze del gruppo brigate il 28 aprile davanti a Vittorio Veneto ottenevano la
resa di due divisioni motorizzate e potevano informare, attraverso gli ufficiali
di collegamento, il comando alleato della avvenuta capitolazione delle forze
tedesche e della liberazione delle strade fino a Vittorio Veneto.
L'azione della "Nannetti" aveva portato ad ottimi risultati anche nella
salvaguardia delle centrali elettriche, mentre non era riuscito il blocco
militare alla stretta di Quero, dove massiccio e continuo si palesava l'afflusso
delle colonne tedesche, che seguivano la destra Piave e riuscivano in qualche
modo a superare gli ostacoli frapposti dai partigiani lungo la vallata media del
Piave.
Pillole di storia n.29
Tratto dal libro "GUERRA E RESISTENZA IN CADORE" di Walter Musizza e Giovanni De Donà
(Capitolo "LA LIBERAZIONE")
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...siamo nel 1945 - estratto che riguarda il nostro Comelico e Sappada...
La liberazione
....andava aggiunta la cattura a S.Stefano il 27 aprile di
un reparto tedesco in ritirata, con sua successiva consegna agli americani.
Ma ulteriori gravi sacrifici di sngue erano chiesti alla nostra gente quando
ormai si pensava che ogni paura potesse lasciare il posto alla gioia e ai
festeggiamrnti e uno dei predestinati fu lo stesso Comandante della "Calvi"
Severino Rizzardi.
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Pillole di storia n.30
Tratto dal libro "GUERRA E RESISTENZA IN CADORE" di Walter Musizza e Giovanni De Donà
(Capitolo "LA LIBERAZIONE")
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...siamo nel 1945 - estratto che riguarda il nostro Comelico e Sappada...
.....segue dal mese di DICEMBRE 2017
Continua ......
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Sempre il 2 maggio il “Sottocomitato L. N.” del
Comelico di S. Stefano, dopo aver raccolto le armi puntualmente
consegnate dai patrioti, nonostante le molte incognite della ritirata
tedesca, emanava un proclama col quale si dichiaravano decaduti tutti i
poteri amministrativi e si notificava l’assunzione dei medesimi da parte
di una giunta popolare composta da 15 membri, designati dai partigiani e
dal locale CLN |
Pillole di storia n.31
Tratto dal libro "GUERRA E RESISTENZA IN CADORE" di Walter Musizza e Giovanni De Donà
(Capitolo "LA LIBERAZIONE")
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...siamo nel 1945 - estratto che riguarda il nostro Comelico e Sappada...
.....segue dal mese di GENNAIO 2018
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